Si spengono i riflettori su Venezia 76, dopo l’ultimo atto, quello più inutile eppure da molti il più atteso, la premiazione, superata in quanto a sterilità solo dalle immancabili polemiche che le fanno seguito. L’oggettività è un filtro impossibile da pretendere nel giudizio di un corso artistico, quando poi a formulare i verdetti sono addetti ai lavori che di quel mondo fanno parte le logiche si fanno talvolta oscure e imperscrutabili.
La giuria presieduta dalla regista argentina Lucrecia Martel ha premiato “Joker” di Todd Phillips, mentre il secondo premio è andato al “J’accuse” di Polanski. La migliore attrice è Ariane Ascaride, brava protagonista di uno dei film più deludenti del concorso, “Gloria mundi” di Robert Guediguian, mentre la coppa per il miglior attore va a Luca Marinelli, il “Martin Eden” di Pietro Marcello.
Proprio da “Martin Eden” partiamo per dirvi qualcosa circa la seconda parte della rassegna, quella che ancora non vi abbiamo raccontato.
La metà conclusiva della Mostra, come ci si aspettava, non è stata all’altezza della prima, offrendo sì qualche piccola sorpresa (poche) ma soprattutto delusioni (tante). Il film di Pietro Marcello tratto da Jack London è sicuramente stato tra i momenti più positivi. Marcello, per chi non lo sapesse, è stato, fino a oggi, un documentarista tra i migliori in Italia. Con “Martin Eden” debutta nel racconto finzionale tout court, ma lo fa mantenendo alcuni cardini del suo precedente cinema, in particolare la scelta di attingere a un repertorio di materiali diversi: frammenti di vecchi film, estratti di repertorio, pezzi di documentari si intrecciano alla linea narrativa principale. Marcello inoltre sposta la storia dalla baia di San Francisco al golfo di Napoli, ma soprattutto accosta in modo molto libero elementi provenienti da momenti differenti del Novecento, come abiti di inizio secolo indossati da uomini al volante di auto anni ‘70, truppe fasciste e televisori anni ‘50. In pratica, l’ambientazione storica del film è semplicemente “il XX secolo dell’Italia”, dipinto come un unico grande presente. Un bel rischio, ma è la sfida che Marcello, per almeno un’ora e mezza sulle due complessive, vince con più lucidità, riuscendo ad ancorare l’americanissima storia del self made man di Jack London a un “eterno ritorno” tutto italiano, proiettando sullo sfondo delle gesta del protagonista un paese che si trasforma per rimanere drammaticamente come è sempre stato. Il protagonista, l’idealista che si costruisce da solo, che lotta contro il perbenismo e che diventa idolo di quella stessa società che lo disprezzava, ringhiando di rabbia per questo, è interpretato alla grande da Luca Marinelli, che ha strameritato il premio che, pare, si è conteso fino all’ultimo con il “Joker” Joaquim Phoenix. È un eroe “contro”, Eden, e lo è in particolar modo per la prove superba di Marinelli: un introspettivo anti-socialista, anti-fascista, anti-borghese e anti-populista, segnato da un individualismo nietzschano provocatorio e violento.
Anche l’attore, però, come il film, è in qualche modo “asimmetrico”: è come se a un certo punto il coraggio di Pietro Marcello e la sua ispirazione finiscano di colpo, lasciando il passo improvvisamente a una convenzionalità calligrafica un po’ stucchevole che affossa l’ultima mezzora dell’opera, da quando, insomma, il protagonista raggiunge l’apice del successo. Lo stesso Marinelli nel finale si appiattisce su una forma caricaturale e sbraitante che non rende giustizia alla sua bravura e che toglie forza e dinamismo al film. Un film che, sebbene non a conti fatti non interamente riuscito, rimane un’opera importante.
Seconda nota positiva: “Babyteeth”, della regista australiana Shannon Murphy, al suo lungometraggio d’esordio. Un piccolo gioiello, da molti erroneamente e colpevolmente scambiato per un semplice teen drama, è invece un testo esemplare e potentissimo sul complessità delle relazioni, sul desiderio e sulla disarmonia affettiva che attraversa i legami familiari. Con uno stile leggero, fresco e potente che evita miracolosamente il patetico, la Murphy ha confezionato uno dei film più belli del concorso, a parere di chi scrive secondo solo a “Ema” di Pablo Larrain.
Le delusioni sono state tante: Olivier Assayas, con lo sgangherato “Wasp Network”; Roy Anderson, con il manierato “On Endlessness”, che pure gli è valso il premio per la miglior regia; il già citato “Gloria Mundi” di Robert Guediguian ; l’orrido “Painted Bird” di Václav Marhoul.
Una selezione asimmetrica, quindi, che ha avuto un altro punto di debolezza nelle sezioni cosiddette collaterali, “Orizzonti” in particolare, non all’altezza di edizioni precedenti. In questa sezione, una menzione particolare la meritano due film: l’opera prima “Sole”, di Carlo Sironi, un film di un rigore sorprendente per un esordiente, un autore di cui sentiremo certamente parlare, e “Atlantis”, che ha trionfato in questa sezione, un intimista sci-fi ucraino firmato da Valentyn Vasyanovych, film di grande spessore narrativo e visivo che proietta in un futuro prossimo e (quasi) senza speranza gli effetti del conflitto tra Russia e Ucraina.
Appuntamento al 2020, con l’edizione numero 77.