Il bello della Mostra è anche questo, due lati diversi dell’industria cinematografica che sfilano sul Red Carpet veneziano nella stessa serata, quella del secondo giorno di Festival: prima Netflix, che ha prodotto e distribuirà “A Marriage Story” di Noah Baumbach, con Adam Driver e Scarlet Johansson, e poi la 20th Century Fox, con il cast del kolossal d’autore “Ad Astra”, firmato da James Gray e capitanato da Brad Pitt.
Partiamo dal primo, che sì, si intitola Storia di un matrimonio, ma che in realtà racconta un divorzio: quello di Charlie, regista teatrale newyorkese, e di Nicole, prima attrice della compagnia del marito, trasferitasi da Los Angeles a New York per amore.
Si apre con doppia voce fuori campo, prima lui e poi lei a elencare i pregi dell’altro, a definire ciò che li ha spinti a stare insieme, a sposarsi e a fare anche un figlio, a sottolineare ciò che li rende unici agli occhi dell’altro e il sentimento profondo che li lega. È, però, solo l’esercizio suggerito da un terapeuta di coppia, cui i due si sono rivolti per gestire la loro separazione: “A Marriage Story” parte da quelle liste piene di affetto per raccontare quanto sia difficile prendersi cura dell’amore e non lasciare che venga soffocato da incomprensioni, frustrazioni e differenze.
Nella separazione, il proposito iniziale della coppia è molto politically correct: gestire il divorzio in modo ragionevole, con il disincanto intellettuale dell’upper Middle class di New York. Il distacco, però, non va in scena nella “grande mela” ma a Los Angeles, dove Nicole ha fatto ritorno per girare una serie tv, portandosi dietro il figlio, e nella città californiana, “dove c’è tanto spazio”, come viene ripetuto spesso dai personaggi del film, la situazione va presto fuori controllo. Per tre quarti del film, Baumbach esemplifica la fenomenologia della fine di un amore raccontando in un potentissimo e agrodolce crescendo la via crucis dei due giovani e scindendo significativamente il racconto in due binari paralleli: da un lato l’interazione diretta di Charlie e Nicolle è civile, sorvegliata, rispettosa, ma anche un po’ contratta e fasulla, come se i due non fossero più in grado di comunicarsi veramente e nemmeno di esprimere la propria rabbia; dall’altro gli avvocati a cui si rivolgono “perché qui si fa così” (gli strepitosi Laura Dern, Alan Alda e Ray Liotta) vomitano progressivamente l’uno addosso agli altri quello che i due non riescono a dirsi. Episodi intimi, privati e addirittura banali vengono trasformati dai legali in capi d’accusa carichi di collera. Baumbach sembra collocare in questa comunicazione scissa la drammatica faglia che separa i due ex amanti, che distanzia ciò che di doloroso sentono dal modo, necessariamente composto, in cui ci si aspetta che si comportino.
L’ultima porzione del film ha inizio con una delle scene più commoventi e intense del film, quando i due piani si ricongiungono e gli ex coniugi, a colloquio privato, finalmente riescono a scontrarsi in modo violento e aperto. Un momento forte, denso e in qualche modo catartico, che libera l’interazione tra Nicole e Charlie da un groviglio vorticoso di non detti.
Per 136 minuti che scorrono senza un solo momento di stanchezza si ride (di gusto) e si piange (tanto), in quello che, a oggi, è indubbiamente il film più maturo e riuscito della carriera di Baumbach, sceneggiatore e regista che, tra rimandi a Woody Allen e a Bergman, sfoggia una facilità e una felicità di scrittura sbalorditive, sorretto in questo dalle due eccezionali performance di Scarlett Johansson e Adam Driver, letteralmente in stato di grazia. Sarà su Netflix a Dicembre, sia in Italia sia negli Stati Uniti, e sarà uno dei film da non perdere di questa stagione.
Il film di James Gray, Ad Astra, uscirà invece al cinema e il 20 settembre sarà visibile a New York, sei giorni dopo per i nostri lettori italiani. Brad Pitt veste i panni di Roy McBride, un astronauta famoso per la sua freddezza quasi robotica: sotto stress, il suo ritmo cardiaco non supera gli 80 battiti. Ovviamente, Roy è anche palesemente anaffettivo, ha un matrimonio fallito alle spalle, non ha mai voluto figli e suo padre è scomparso nello spazio 16 anni prima mentre cercava forme di vita intelligenti. Il film di Gray, con questo protagonista, va a collocarsi in un filone ultimamente piuttosto affollato, quello dei drammi familiari metaforizzati nello spazio: da “Interstellar” a “First Man”, il viaggio tra gli astri sta diventando lo scenario perfetto e più utilizzato per raccontare l’intimità del dolore. Differenza con i predecessori: lo spazio, qui, al nostro Roy non serve per cercare se stesso, bensì per fuggire “da” se stesso e tenere distanti i propri fantasmi. A decine di migliaia di chilometri dalla Terra, Roy si sente bene perché finalmente non (si) sente più se stesso.
Un bel giorno, però, mentre è a fare manutenzione di un satellite nell’esosfera, una tempesta elettrica di provenienza imperscrutabile lo travolge e lo fa cadere vertiginosamente per centinaia di chilometri. Roy si salva, grazie al paracadute, ma qualcosa di più profondo si rompe, come se dall’alto delle sue certezze Roy iniziasse a precipitare nell’abisso del dubbio. Il viaggio metaforico che gli viene assegnato subito dopo è di rintracciare l’origine di quella tempesta elettrica, che sta creando grossi problemi a tutto il pianeta: l’agenzia spaziale Spacecom la attribuisce proprio al padre, che potrebbe non essere morto ma potrebbe soggiornare, evidentemente fuori di sé, nei pressi di Nettuno. In altre parole, Roy deve affrontare il trauma dell’assenza del genitore e cercare di farsene qualcosa. Che di questi tempi nella società occidentale ci sia qualche problema con la figura paterna non è una novità, ma il film di James Gray – più volte annunciato, cancellato e rinviato e finalmente approdato nel concorso di Venezia 76 – lo certifica con convinzione. Come in “Cuore di tenebra” e quindi in “Apocalypse Now”, Roy inizia un viaggio volto a “terminare” la missione del genitore. E proprio come l’Africa coloniale del romanzo di Conrad e la giungla di Coppola, lo spazio di Gray è tutt’altro che asettico, anzi è fortemente “umanizzato” e rispecchia la follia distruttiva dell’uomo: la Luna, ad esempio, che non ha confini precisi, è per metà luogo di scontri e di pirati, per metà coperta da fast food e centri commerciali, mentre Marte è sede di basi sotterranee e giochi di potere. Anche Roy, come i Willard di Conrad e Coppola, in questo percorso simbolico, viene rincorso dalle proprie ossessioni e dai propri traumi, tanto che Gray spinge il film deliberatamente lontano da qualsiasi forma di realismo, e lo orienta verso la dimensione simbolica e metaforica.
Accompagnato dal voice over “malickiano” di Pitt, intervallato da frammenti onirici e ricordi stranianti, caratterizzato dalla consueta, seducente lentezza dei film di Gray, “Ad Astra” è un film potente, un’esperienza, però, che si tiene ben lontana dalla pancia e appaga più intellettualmente che emotivamente, a patto, ovviamente, di considerare tutto il viaggio come una radicale proiezione simbolica.