George Eliot è lo pseudonimo maschile con cui è nota Mary Anne Evans, scrittrice inglese fondamentale, molto più di quanto dica di lei la (discreta) notorietà del suo nome. La sua opera più importante è Middlemarch, pubblicato nel 1869, romanzo realista con venature comiche che ha come protagonista Dorothea Brooke, donna benestante e di ideali nobili che la spingono a impegnarsi per i poveri della contea in cui vive. Alla fine del romanzo, la scrittrice chiude dicendo di lei: «il bene crescente del mondo in parte dipende da azioni prive di storia; e il fatto che per me e per voi le cose non vadano così male come sarebbe stato possibile, è per metà merito di coloro che condussero fedelmente un’esistenza nascosta (A Hidden Life, titolo del film) e riposano in tombe neglette».
Anche Terrence Malick chiude il suo nuovo lungometraggio, presentato domenica in concorso al festival di Cannes, con queste parole, che spiegano il titolo dell’opera e anche il suo senso profondo. L’esistenza “nascosta” e “priva di storia” è quella del contadino austriaco Franz Jägerstätter (interpretato da August Diehl), nato e cresciuto nel villaggio alpino di St. Radegund, poco lontano da Graz, dove ha costruito una famiglia e dove conduce una vita tranquilla e serena con la moglie Franziska (Valerie Pachner). Siamo, però, alla fine degli anni ’30 e sull’Austria si abbatte l’incubo dell’Anschluss: Franz, profondamente cattolico, ritiene incompatibili i suoi ideali con il nazismo e quindi, unico del suo paesino, rifiuta di aderirvi. Rigetta la partecipazione alla vita pubblica della comunità, vota “no” al plebiscito sull’annessione, mette in atto altre forme “passive” di dissenso, attirando su di sé e la sua famiglia i sospetti dei suoi compaesani, che non vogliono grane con i nuovi invasori. Quando, nel 1940, Franz viene chiamato nella Wehrmacht, il dilemma morale diventa esiziale: accettare il compromesso o ribadire l’obiezione di coscienza, andando incontro a morte certa?
Più volte, durante il film, diversi personaggi chiedono a Franz il senso della sua battaglia, una sfida apparentemente inutile perché destinata alla sconfitta e soprattutto invisibile ai grandi occhi della storia: chi si accorgerà del suo sacrificio? Chi si gioverà del suo rifiuto e della sua fermezza? Che cosa cambierà il suo martirio? Eppure, sembra dirci Malick, l’eroismo del contadino austriaco sta proprio lì, nell’invisibilità della sua non-violenta battaglia, nella capacità di coniugare, come direbbe Max Weber, un’etica dei principi, legata quindi a questioni valoriali irrinunciabili, a un’etica della responsabilità, consapevole dell’effetto delle proprie azioni.
Malick pone la questione con forza, all’interno di un film bellissimo in cui la controversa “forma” che il regista de La sottile linea rossa ha utilizzato in questi ultimi dieci anni, da The Tree of Life in poi per intenderci, viene finalmente messa al servizio di una struttura narrativa organica, in cui vengono anche reintrodotti elementi più “classici”, come i dialoghi, che compendiano l’onnipresente voice over. Non un ritorno al passato, quindi, ma una felice e nuova declinazione della direzione estetica scelta negli ultimi film. In ogni caso, più che un semplice “autore”, Malick è un grande pensatore e come tale si dimostra in grado intercettare e comprendere lo spirito del tempo in cui ci troviamo. Il discorso concettuale che questo film imposta, infatti, è quantomai appropriato all’inquietante contesto in cui viviamo, fatto di slogan costruiti a colpi di “prima gli…” e di espressioni di disumano egoismo: nessuno, invece, può e deve sottrarsi alla responsabilità della scelta etica, che non è mai inutile e, come dice Franz al giudice interpretato da Bruno Ganz in una delle sue ultime interpretazioni prima della morte, non può essere valutata solo in base alla risonanza del gesto, ma al limite sulla base della sua intima coerenza e della sua non pericolosità per la comunità.
Sorretto dalla bellissima colonna sonora di James Newton Howard, A Hidden Life è un film potente ed emozionante, come il paesaggio alpino che fa da sfondo alla vicenda, fotografato in modo particolarmente luminoso e vivido dall’austriaco Jörg Widmer, correlativo oggettivo del lato “chiaro” del dilemma morale del protagonista e sempre contrapposto alle anguste, cupe e buie stanze del potere, delle caserme, delle prigioni e del tribunale militare di Berlino.
La durata è impegnativa, 180 minuti, ma la sensazione, dopo aver visto questo ritorno di Terrence Malick alla forma-racconto, è quella di trovarci davvero davanti a un film grandioso e importante.