Certo, probabilmente non ci vuole grande intuito per capire che viviamo in un mondo fottuto, ma i primi film in concorso al Festival di Cannes ce lo ribadiscono in modo piuttosto netto.
Il divertissment di Jim Jarmusch, The Dead Don’t Die, che ha aperto la rassegna, si snoda come una metafora politica piuttosto chiara. Nel film, il dissesto climatico voluto dalle multinazionali, con la connivenza di amministratori idioti che si sentono sproloquiare via radio, ha prodotto uno spostamento dell’asse di rotazione terrestre che ha fatto saltare definitivamente quell’ordine simbolico che, a fatica, ancora teneva: si fa confusa l’alternanza tra il giorno e la notte, gli schermi dei nostri device si spengono e gli orologi non segnano più l’ora. In questo mondo che non siamo più in grado di misurare, i morti si risvegliano: il primo esilarante zombie è Iggy Pop, che esce dalla tomba di Samuel Fuller e cerca disperatamente caraffe di caffè. Sono gli zombie più trumpiani che si siano mai visti al cinema, affamati di carne umana e junk food, assetati di caffè e alla ricerca di banda larga e tecnologia. Ci vogliono con loro nell’aldilà, anche perché, come dice la strepitosa allitterazione del titolo originale, i morti non muoiono. Con un citazionismo consapevole e irresistibilmente disordinato, Jarmusch sposta la metafora che fu di Romero: gli zombie che infestano Centerville siamo sempre noi, come in Dawn of the Dead, ma ormai sono (siamo) oltre il consumismo e il capitalismo, prodotti putrescenti di un’epoca incomprensibile e ottusa. Tra gag metacinematografiche (il personaggio di Adam Driver che prevede che cosa accadrà perché “ha letto la sceneggiatura”) e un cast all stars (Driver, Bill Murray, Tilda Swindon, Steve Buscemi, Chloë Sevigny, Selena Gomez), spicca lo straniante eremita filosofo interpretato da Tom Waits, che permette a noi, spettatori-zombie, di osservarci dall’esterno.
Non meno politici gli altri due film visti in concorso in questi primi giorni, entrambi interessanti. Kleber Mendonça Filho, dopo l’ottimo Aquarius di due anni fa, torna nella line up principale del festival francese con Bacurau, un’opera di realismo magico ambientata in un imprecisato futuro distopico (che ricorda in modo inquietante il presente), in Brasile. L’immaginario villaggio che dà titolo al film, perso in mezzo alla foresta, sparisce improvvisamente dalle mappe, mentre gli abitanti tentano di sopravvivere, difendendo come possono le loro radici culturali e la loro indipendenza contro chi li priva addirittura dell’acqua. Il nemico è l’istituzione, rappresentata dal viscido sindaco “bolsonariano” Tony Jr., che ha un piano diverso per Bacurau: ha venduto agli americani l’intera area come “riserva di caccia all’uomo”, affinché sfoghino le proprie pulsioni aggressive. Gli yankee, insomma, pagano per poter spazzare via il villaggio, già assente dalla carta geografica, anche dal mondo reale, ma gli abitanti di Bacurau sanno come difendersi. Con qualche eccesso didascalico, lo stile visionario e al tempo stesso iperrealistico del regista brasiliano tiene in piedi un film efficacemente surreale, grafico e violento, che dice molto e in modo efficace del Brasile di Bolsonaro, “venduto”, nel corpo e nell’anima, al capitalismo occidentale e sacrificato sull’altare della violenza.
Apparentemente più classico è Les Miserables del regista francese Ladji Ly, esordiente che finisce direttamente in concorso. Ambientato nella banlieu parigina di Montfermeil, dov’era ambientato il romanzo di Hugo e dove il regista effettivamente vive, racconta la tensione tra le comunità di gitani e musulmani, che esplode però solo quando i poliziotti delle brigate anticrimine compiono un atto di violenza contro un ragazzino, gesto accidentalmente ripreso da un drone. Se stile e ritmo sono da poliziesco classico, l’aspetto anticonvenzionale risiede nella rappresentazione dei poliziotti, incapaci di gestire le situazioni incandescenti in cui si trovano e molto meno razionali dei loro “miserabili” antagonisti. Una visione ‘pulsionale’ dell’istituzione che sembra rappresentare perfettamente, ben al di là delle situazioni raccontate de film, la condizione reazionaria di molte democrazie europee, Francia inclusa, nonostante l’apparente ‘accettabilità’ del macronismo.