La novantunesima edizione degli Academy Awards passerà sicuramente alla storia non solo per essere stata la prima a non aver avuto un presentatore ufficiale ed una linea autorale di intrattenimento televisivo importante, ma anche per aver consegnato il maggior numero di premi ad artisti afroamericani, una grande rivoluzione storica per un palco che spesso è stato teatro delle rivendicazioni della comunità black americana. Basti ricordare che si è dovuto attendere fino al 2002 per vedere trionfare una donna di colore come migliore attrice protagonista agli Oscar, e l’urlo liberatorio e la commozione di Halle Barry che ha rotto quella maledizione sono ancora vive nell’immaginario collettivo. Per questo le vittorie di quest’anno, Regina King – miglior attrice non protagonista per Se la strada potesse parlare (If Beale Street Could Talk); Mahershala Ali – miglior attore non protagonista per Green Book; Spike Lee – miglior sceneggiatura non originale per BlacKkKlansman; Ruth Carter – miglior costumi per Black Panther e Hannah Beachler – miglior scenografia per Black Panther; non possono lasciare indifferenti.
Neanche il grande maestro del cinema americano, Spike Lee, era mai riuscito a salire sul palco da vincitore in gara, a parte l’Oscar alla carriera del 2016. Concitato ed eloquente il suo discorso di accettazione che ricorda l’importanza del Black History Month – la ricorrenza che ogni febbraio celebra la diaspora africana – ed invita l’America a fare la scelta giusta alle prossime elezioni: “Davanti al mondo stasera, rendo omaggio ai miei antenati che hanno costruito questo paese, e al genocidio dei nostri nativi. Quando riguadagneremo la nostra umanità sarà un momento molto potente. Le elezioni del 2020 sono dietro l’angolo: mobilitiamoci e stiamo dalla parte giusta della storia. Facciamo una scelta morale d’amore invece che di odio: facciamo la cosa giusta!”.
Importanti anche le vittorie di Regina King ed in particolare di Ruth Carter, prima donna afroamericana nella storia a vincere nella categoria miglior costumi e Hannah Beachler, prima donna afroamericana a vincere per la miglior scenografia: “Ho fatto del mio meglio, ed il mio meglio è abbastanza”, ha chiosato la scenografa alla fine del suo sentito discorso di ringraziamento che sembra apporre un sigillo importante alla discriminazione che per anni ha colpito gli artisti di colore ed in particolare le donne di colore sul palco degli Oscars.

Uno dei grandi favoriti della serata, Alfonso Cuarón con il suo Roma, dieci candidature, non conquista il premio più ambito per il miglior film ma trionfa come regista, come miglior film straniero e come miglior fotografia. Questo è sicuramente il film dell’anno, che da outsider è diventato nel corso del tempo un insider e portavoce di un messaggio di integrazione importante per il paese che rappresenta, il Messico, e per la tanto discussa questione, politica, ideologica, morale, mediatica che sta attraversando l’America trumpiana dei giorni nostri. “Voglio ringraziare l’Academy per aver premiato un film incentrato su una donna indigena, una delle 70 milioni di lavoratrici domestiche senza diritti professionali, un personaggio che storicamente è stato relegato sullo sfondo. Come artisti, il nostro lavoro è guardare dove gli altri distolgono gli occhi, e questa responsabilità è ancora più importante in un’epoca in cui veniamo incoraggiati a guardare altrove”.
La dichiarazione del regista tocca sicuramente un nodo centrale. La responsabilità dell’opera d’arte. La militanza dell’artista ed il suo dovere sociale di farsi uomo del suo tempo e di plasmare la sua materia estetica al mondo che sta vivendo. Questa edizione degli Oscar solleva una questione di fondo, un quesito estetico quasi archetipico ma di grande attualità. L’opera d’arte può essere fine a se stessa? Può ancora permettersi di regalarci un’esperienza puramente edonistica, o deve, necessariamente educare, provocare, consacrare, dissacrare, scomporre per poi ricomporre un senso più completo di un’ideale o di una dinamica politico-sociale?

Sembra che trasversalmente questo sia un po’ il tema degli ultimi grandi eventi mediatici, dai recenti Golden Globes al nostro italianissimo Sanremo. Sembra difficile scindere la pura piacevolezza estetica dal messaggio, sia che il messaggio sia voluto dall’artista, sia che questo sia estrapolato, manipolato da una certa lobby politica ed intellettuale. Per tornare agli Oscar 2019, in molti casi la forma, il messaggio e il contenuto hanno valso significativamente il plauso dell’Academy per la loro esatta alchimia e coerenza. Roma ne è un esempio, ed al di là di qualsiasi politicismo, è difatti un film esteticamente superlativo, recitato con un ritrovato neorealismo contemporaneo, e che affronta una tematica che deve essere raccontata all’America di oggi. Ma forse non è tutto oro quello che luccica sulle statuette consegnate ierisera al Dolby Theatre di Los Angeles. Si ritorna ad un importante crocevia tra estetica e contenuto con Bohemian Rhapsody di Bryan Singer. Meritato senza dubbio l’Oscar al miglior attore Rami Malek, seppure non avesse niente in meno rispetto ai suoi contendenti, ma si sa che l’Academy ama premiare le grandi trasformazioni attoriali, e sicuramente la sua è stata quella più eclatante. Ed ancora importante che questa vittoria si faccia portavoce di quello che sembra essere stato lo script/unscripted della serata, la centrale discussione sull’integrazione multirazziale ed in questo caso anche di gender. Alla premiazione Malik ha dichiarato: “Questo è un film su un uomo gay e un immigrato che ha vissuto la sua vita essendo solo se stesso: io sono figlio di immigrati che vengono dall’Egitto e non potrei essere più grato di quello che è successo”. Ed è sicuramente importante che questo sia successo, che i Queen fossero presenti in sala e abbiano aperto la serata con Adam Lambert, riportando in vita la parabola di vita di Freddy Mercury. Non è stata di fatto esattamente evangelica la parabola del mito del rock, così come per niente evangelico è risultato essere il profilo del regista del biopic, Bryan Singer, accusato di abuso e violenza su ragazzini minorenni.
L’ombra di questa accusa non ha appannato il luccichio delle ben quattro statuette collezionate dal film, seppur molti avessero gridato alla sua sospensione in toto. Però forse se accettiamo che l’opera d’arte si faccia portavoce di uno status quo della nostra società, allora dobbiamo anche contemplarne tutti i suoi paradossi, le sue incongruenze e le sue svianti brutture. Il giudizio di forma può essere importante per capire gli attori in campo di uno spettacolo che diventa però sempre meno spettacolare. Da questo punto di vista anche la vittoria a sorpresa di Green Book, lascia spazio a delle ombre tenute volutamente lontane dai riflettori. Sulla carta il film di Peter Farrelly sembra essere la summa perfetta, il compendio perfetto, l’acme dello script/unscripted della serata di cui si parlava prima. Quale migliore storia di quella del pianista afroamericano Don Shirley che ha sfidato le convenzioni dell’America razzista degli anni ’60 insieme al suo fidato buttafuori italoamericano Tony Vallelonga poteva essere più congruente con tutto il messaggio della serata. Il film in sé, che vince anche il premio alla miglior sceneggiatura originale oltre che il miglior attore non protagonista, Mahershala Ali, è drammaturgicamente più debole rispetto ai suoi contendenti, se non altro imparagonabile, a mio modesto avviso alla forza visiva e drammaturgica di Roma, BlacKkKlansman, A Star is Born e La Favorita, che avrebbe meritato molto di più: la regia di Yorgos Lanthimos è pirotecnica così come il tono e la narrazione chiaroscurale del film, ironicamente drammatica e drammaticamente ironica. Green Book, ha però un messaggio talmente chiaro, talmente leggibile, quasi didascalico che è l’ideale bandiera di questi Oscars 2019. Il paradosso però è proprio nella lettura dell’importante tematica del quale si fa carico, una lettura abbastanza approssimativa, a tratti superficiale e che se rispetta a grandi linee le dinamiche dell’America anni ’60 prima del Civil Rights Act che abolirà la segregazione, proponendosi ovviamente di attualizzarla, scade in una descrizione del tutto macchiettistica di un’altra importante diversità etnica, quella italoamericana. Il personaggio di Viggo Mortensen è l’apoteosi di tutto ciò che Il Grande Padrino o I Soprano ci hanno abituato a vedere della cultura italoamericana. È poco educato, tutto casa, famiglia, spaghetti… pizza e mandolino. E forse Mortensen nobilita anche con la sua bravura un personaggio scritto abbastanza male. E forse il tempo per approfondire anche l’etnia italoamericana e fornirne un ritratto ricco di sfumature e di contrasti aldilà degli stereotipi arriverà, non è certo l’urgenza del cinema americano di oggi, questo pare palese.
Anche il miglior film d’animazione, Spider-man – Un nuovo universo, ci presenta proprio un nuovo universo per quello che è il clichè degli eroi dei comics books americani. Dietro agli intramontabili Superman, Wonder Woman, Batman, si sono sempre celate delle rappresentazioni chiare ed inequivocabili del machismo bianco americano, ed il fatto che questo nuovo Spider-Man sia di origini afroamericane ed in particolare portoricane, fa di certo una grande differenza. È un forte segnale antitrumpiano visto che ai tempi di Obama questo personaggio era stato pensato in onore del primo presidente afroamericano degli Stati Uniti. È tra l’altro l’unico Oscar che premia anche un’eccellenza italiana per quest’anno: la disegnatrice Sara Picchelli.
Del puro intrattenimento e del piacere edonistico questa edizione degli Oscars ha lasciato poco, al di là della mancanza di una presentazione brillante che facesse da cornice. Lo spettacolo vero e proprio sono state le esibizioni de I Queen con Adam Lambert, quella di Jennifer Hudson, la superba Bette Midler nella sua canzone tratta da Mary Poppins Returns ed ovviamente quella di Lady Gaga. La vincitrice dell’Oscar alla miglior canzone, Shallow insieme a Bradley Cooper, per A Star is Born, ha riportato un po’ gli Oscars ai lustri dei grandi anni del divismo hollywoodiano, che tanto faceva evadere e sognare. Talento, interpretazione, forza emotiva, Lady Gaga ha calcato il palco da vera diva in una performance che è stata un piccolo idillio, in coppia con un altrettanto strepitoso Bradley Cooper. Forse manca un po’ la Hollywood patinata di Marylin Monroe, Rock Hudson, Liza Minelli, Marlon Brando, Paul Newman, Elizabeth Taylor, Audrey Hepburn, per citare alcuni degli attori dei tempi d’oro. Forse manca un po’ quel senso di curiosa trepidazione che agitava il pubblico quando a competere per una statuetta erano una Joan Crawford ed una Bette Davis. E poco interessa se alla sublime Glenn Close sia stata strappata l’opportunità di afferrare la tanto agognata statuetta per la settima volta, anche se in favore di una grandissima rivale, la virtuosa Olivia Colman. Le forze in gioco hanno un peso specifico ben più gravoso. Evidentemente seppur sempre dorati, gli Oscars contemporanei sono attraversati da molte più ombre, da toni necessariamente più sobri, necessariamente meno spensierati, e se il cinema è ancora quella fabbrica di sogni illuminata dai Lumiére agli inizi del novecento, i sogni che il cinema contemporaneo americano ci invita a fare sono sogni ad occhi ben aperti, ad occhi ben vigili ed attenti.