
Commuove e fa riflettere “La morte legale”, toccante documentario co-firmato da Silvia Giulietti e Giotto Barbieri dedicato alla genesi di “Sacco e Vanzetti” del maestro Giuliano Montaldo.
Il regista genovese, 88 anni meravigliosamente portati, ripercorre la storia dei due anarchici italiani, immigrati negli Stati Uniti, accusati di duplice omicidio e ingiustamente condannati, nel 1927, alla sedia elettrica. Con quell’intensa pellicola Montaldo riabilitò la loro immagine. Nel documentario, in uscita l’11 ottobre a cura di Distribuzione Indipendente, viene raccontata attraverso fotografie dal set, testimonianze, casi fortuiti e tanti retroscena, la realizzazione di un capolavoro assoluto del nostro cinema.
La Voce di New York lo ha intervistato.
Nei film segue il suo personale filo rosso: quello della denuncia di ogni tipo di intolleranza.
“La nostra sofferenza per l’intolleranza ci ha portato a girare Sacco e Vanzetti e anche Giordano Bruno, Gott Mitt Uns e Gli occhiali d’oro tanti altri film. L’intolleranza è la madre di tutti le sciagure, come il crimine di Stato compiuto contro questi due italiani, nell’America degli anni ’20 terrorizzata dal pericolo anarchico”.
Nel 1977 Michael Dukakis, governatore del Massachusetts, proclama la riabilitazione di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, dichiarando al mondo intero la loro totale innocenza.
“Il film ha scatenato un desiderio di conoscenza, di approfondimento e di ricerca della verità. Ha sollevato la voglia di approfondire il caso. Alcuni ragazzi che studiavano giurisprudenza in Massachusetts hanno preso in mano le carte del processo, e dopo 4 anni sono andati a Dukakis, dimostrando l’errore e riabilitando la memoria di Sacco e Vanzetti. In quel periodo io, il produttore e la mia compagna Vera eravamo in America e abbiamo potuto filmare la loro riabilitazione”.
Quel giorno il nipote di Sacco l’ha abbracciata, cosa ha provato?
“E’ stato un momento di grande commozione. Si è avvicinato un signore e mi ha abbracciato. Era il nipote di Sacco. I miei occhi si sono inumiditi. Per lui e tutta la famiglia è stato un risultato importantissimo”.
Siete stati determinanti per far conoscere la loro storia a tutto il mondo, un compito impegnativo?
“Quando Sacco e Vanzetti sono arrivati in America, non c’era né il partito comunista, né quello socialista. Anarchia per loro significava soprattutto sindacalismo e battersi per la difesa dei loro diritti. Bollati come anarchici, invece, sono stati subito condanni. La paura che il virus arrivasse in America grazie a nuovi immigrati ha portato ad accelerare la condanna di due persone colpevoli non di omicidio ma di essere di sinistra. La loro condanna era un esempio per tutto il popolo americano”.
Una violazione dei diritti umani e l’intolleranza nei confronti degli stranieri che è ancora molto attuale nel mondo, la Storia si ripete sempre?
“Troppo spesso. E’ comodo trovare dei nuovi imputati, delle nuove ragioni di intolleranza. Sono disperato perché è l’origine del peggio: delle guerre, delle violenze e del razzismo”.
Il film con protagonisti Gian Maria Volontè e Riccardo Cucciolla è accompagnato da “Here’s To You, Nicola and Bart”, la ballata cantata da Joan Baez con la musica di Ennio Morricone. Un sodalizio lavorativo fatto di sedici colonne sonore insieme. Cosa le ha insegnato il Maestro?
“Ad immaginare la musica nella sceneggiatura, quando scrivi una storia dove ci sono momenti destinati ai sentimenti, al dramma e alla verità. Fin ora ho ancora il record assoluto di colonne sonore insieme che molto probabilmente verrà demolito da un certo Giuseppe Tornatore (ride, ndr)”.
Avete mai discusso?
“Mai, è sempre disponibile e al servizio del film. Ho cercato di ricordare tutto quello che mi ha detto. Ci siamo voluti molto bene e rispettati. Quando ho girato Marco Polo, lui è venuto addirittura in Cina con la moglie Maria per mettere nella musica anche uno strumento dell’epoca. E’ molto attento”.
Tra le curiosità emerse dal documentario anche la querelle sul ruolo di Vanzetti, all’inizio volevano imporgli Yves Montand…
“Per problemi di soldi, pensammo ad una coproduzione francese. Quando mi proposero Yves Montand mi è preso un colpo. Dissi di no, lo stimavo molto ma non era giusto per la parte. Mi opposi minacciando di non fare il film. Fu una battaglia, che vinsi”.
Che tipo di set avete vissuto?
“Cerano sempre delle difficoltà. Abbiamo girato l’inizio con le baracche in Jugoslavia. A Dublino per ritrovare la Boston dell’epoca. La prigione era quella in cui era stato incarcerato Tito. L’aula di tribunale, invece, l’abbiamo ricostruita a Cinecittà. Il discorso finale è quello di Vanzetti. Preso dalle sue deposizioni. Hanno partecipato molte persone, con molto entusiasmo e molti attori di teatro, anche gratuitamente. In tre anni c’è l’ho fatta. Sono un capoccione, orgoglioso della mia testardaggine,”.
Pensando al cinema di denuncia, rispetto a quello di oggi crede che ci si ancora la censura?
“Oggi i cinema chiudono. Non si scrivono più sceneggiature pagate dal produttore. Allora avevamo maestri come Age, Scarpelli, Maccari, Scola che litigavano per una battuta. Poi ci sono i problemi dei tempi, della distribuzione e il film è destinato al passaggio televisivo. Per quanto riguarda i mie film so, direttamente dal mio garagista sardo che sono passati in tv durante la notte. Ho i cassetti pieni di film che non sono riuscito neanche a far leggere e a proporre. Ora io non so ancora cosa è successo a Portella della Ginestra, non so ancora che è successo a Ustica, a Piazza Fontana, non sappiamo ancora niente, fare film col punto interrogativo finale non è il nostro mestiere”.