Adesso, qui da New York, capiamo perché Roma si è aggiudicato il Leone d’Oro all’ultima Mostra del Cinema di Venezia.
Il film è stato presentato venerdì 5 ottobre all’interno della Main Slate, la sezione principale del New York Film Festival, quest’anno arrivato alla sua 56esima edizione.
E ne avevamo già parlato a settembre, del capolavoro di Alfonso Cuaron, del suo meritatissimo premio in laguna. Qui lo si aspettava con trepidazione, ma anche con un po’ d’apprensione: Venezia spacca spesso i giudizi, com’è giusto che faccia.
Roma è il quartiere di Città del Messico in cui Cuaron ha vissuto infanzia e giovinezza. Roma lo celebra partendo dall’interno di una casa, di una famiglia borghese che ha moltissimo della sua famiglia, a cominciare dall’amatissima domestica Libo, Cloe nella finzione del film, ovvero il centro attorno al quale il film gravita.
Tutto sembra perfetto nella grande casa della famiglia protagonista. Sofia, la madre, biochimica di formazione ma casalinga di lusso, il padre, stimato medico, quattro bei figli, la nonna, e la domestica devota. Questo apparente quadretto di perfezione Mulino Bianco s’incrina dopo poche scene, quando scopriamo il poco di buono di cui Cloe s’invaghisce, e che farà di lei una sedotta e abbandonata con tanto di gravidanza non voluta. Quando scopriamo, anche, l’infedeltà del marito di Sofia, e la sua decisione di lasciare la famiglia — altro aneddoto autobiografico del regista.
Accanto alla storia personale vissuta dai protagonisti, con la delusione di Cloe, il sogno infranto di Sofia, la Storia sfila nel film attraverso episodi collettivamente drammatici, come il Massacro del Corpus Christi del 10 giugno del 1971, quando un numero imprecisato di studenti manifestanti furono uccisi da un gruppo paramilitare.

Tuttavia è l’interno, il luogo che Cuaron vuole esplorare con la sua macchina da presa: l’intimo domestico — la casa — e l’intimo suo, l’archivio della sua memoria.
“È un film sui miei ricordi. Personale. E sugli strumenti emotivi a cui ho attinto”, confessa il regista nella conferenza stampa dopo la proiezione del film. “Ho cullato il progetto per molti anni, ma non ero pronto a lasciare andare le cose. Dovevo affrontare del materiale della mia vita personale che mi risultava difficile affrontare”.
Lo spettatore capisce immediatamente che ciò che sta guardando non è la semplice narrazione di un racconto, come tanti racconti. Da subito, sin dalla scena iniziale — il primo piano di un pavimento lavato, il rumore dell’acqua saponata e lo sfregamento della scopa in sottofondo — si percepiscono la vita e il suo svolgersi, con i ritmi veri, naturali, dello scorrere del tempo.
“Volevo onorare il senso del tempo, e volevo onorare lo spazio. Lo spazio e il tempo ci lasciano, alla fine, ma segnano la nostra vita. Per me la memoria funziona esattamente così.”

La quotidianità della famiglia è osservata con una meticolosità e una cura che non hanno nulla di morboso, e nemmeno di semplicemente naturalistico. Un piatto con del cibo, i panni lavati e stesi al sole, un’automobile che fa manovra in un garage per non toccarne le pareti, persino gli escrementi del cane di famiglia nel cortile. Tutto è annotato, con grazia ma senza giudizio, dalla macchina da presa, dietro cui c’è l’occhio di Cuaron che ri-guarda un passato ancora chiaramente presente e vivissimo dentro di lui. E allo sguardo che abbraccia il grande urbano di Città del Messico così come il piccolo domestico della casa —uno sguardo che ha molto, moltissimo del poeta, in grado di cogliere il macro tanto quanto il micro — si affianca la dimensione del suono, impiegata con attenzione ed estro dal regista. “Se per Proust era il sapore che azionava il grilletto della memoria, per me è l’odore. E l’ho ricreato, cinematograficamente, attraverso il suono, cercando di catturare i rumori di una città, e la musica di una società in un determinato momento storico”.
Oltre a spazio e tempo, Roma celebra anche le donne. Non eroine, non sgualdrine, ma anime che

sopravvivono, con grazia, alle asperità contro cui le loro vite si trovano a sbattere, chi, come Cloe, scoprendo nel ragazzo appena incontrato l’uomo decisamente sbagliato, e chi, come Sofie, scoprendo lo stesso nel proprio marito.
Un film dal patrimonio genetico femminile, ma non femminista, che si limita a porgere una realtà narrativa allo spettatore, lasciando a lui il compito di decifrarla come meglio crede — ovvero ciò che ogni regista dovrebbe fare. “Non volevo dare alcun tipo di risposta”, commenta Cuaron, e quando gli facciamo notare che gli uomini, in questo mirabile affresco emotivo del Messico degli anni ’70 — che potrebbe essere benissimo l’Italia degli anni ’70 — gli uomini risultano piccoli, ridicoli e violenti, come il ragazzo di Cloe, codardi e deboli, come il marito di Sofia, Cuaron ci risponde, “Non c’è mai stato un progetto intellettuale dietro questo film. È un lavoro puramente emotivo. E sì, è proprio un affresco, un murale su cui è dipinta la storia di una famiglia. E sì, potrebbe essere l’Italia. E potrebbe essere l’India di Bombay, come uno spettatore mi ha fatto notare”.
Quando dentro un contesto specifico si riconoscono individualità — geografiche, culturali — diverse, ci troviamo inequivocabilmente davanti a un’opera d’arte in cui brilla l’universale.

Eppure, nonostante lo scavo nella memoria al lavoro in Roma, Cuaron non indulge nella nostalgia, anzi, la rifugge, ricorrendo a un linguaggio visivo che potrebbe superficialmente far pensare il contrario. “Ho usato il bianco e nero, ma non è un bianco e nero nostalgico, è digitale. È un punto di vista dal presente sul passato, non del passato su se stesso”.
Questa scelta stilistica aumenta notevolmente il peso estetico del film, il cui nitore ricorda quello della fotografia di Sebastiao Salgado. La sensazione è quella di trovarsi in una galleria d’arte mobile e, per una volta, guardare le opere d’arte scorrere davanti ai propri occhi — noi fermi, loro in movimento. Le opere d’arte sono gli oggetti della quotidianità. Un telefono, un piatto, un canale di scolo con un omino giocattolo abbandonato a se stesso.

Roma è drammatico, penosamente, dolorosamente drammatico: durante un momento molto cruento del

film, il parto di Cloe, la sala del Walter Reade del Lincoln Center ha risuonato distintamente di singhiozzi. Tuttavia non è una tragedia. “La vita è un posto di solitudine. Ma la vita ti sorprende. Ci sono elementi che sfuggono al nostro controllo. Nelle relazioni, puoi esercitare il controllo, ma solo fino a un certo punto. Devi imparare a trattare con la casualità”. E per quanto Città del Messico e la sua urbanità siano fondanti nel film, Cuaron ci conferma che la natura riveste un ruolo altrettanto fondamentale. “Volevo che ci fossero tutti gli elementi — fuoco, vento, acqua e terra. Per omaggiarli”.
Per tutti quelli che hanno l’occhio un po’ clinico, non sarà difficile notare quanto l’acqua, tra tutti gli elementi, sia quello che s’infiltra, letteralmente, in tutto il film — per lavare un pavimento, spegnere un incendio, portarsi via due bambini.
Alla conferenza stampa erano presenti anche le due protagoniste, Yalitza Aparicio — nei panni di Cloe — bravissima attrice non professionista alla sua prima esperienza attoriale, e Marina de Tavira — Sofia. Entrambe hanno raccontato l’approccio assai spiazzante di Cuaron alla recitazione, “Abbiamo lavorato senza copione: Alfonso arrivava al mattino e ci dava la descrizione delle scene del giorno. Solo quelle. Abbiamo lavorato giorno per giorno. È stato difficilissimo per me, all’inizio. Ma poi ho capito: la vita ti sorprende, e per restituirla in maniera naturale, dovevamo farci sorprendere. Quello è stato il processo che abbiamo adottato”, ha raccontato de Tavira. “Anche per me è stato molto difficile”, aggiunge Aparicio, “a maggior ragione trattandosi della mia prima esperienza cinematografica. Ho cercato di dimenticare che ero in un film, e ho immaginato di trovarmi nella vita reale”.
Struggente e al contempo pieno di vita e di speranza, con una geometria narrativa impeccabile che apre il film sulla terra bagnata dall’acqua e lo chiude sul cielo, Roma è proiettato a Los Angeles, dove gli auguriamo tutti gli Oscar che l’edizione 2019 potrà portargli, ben lieti che Venezia l’abbia consacrato per prima.