Ieri sera, nello sconosciuto, anonimo distretto di Hollywood, a Los Angeles, si sono svolte le cerimonie di premiazione degli Emmy Awards del 2018. Settanta edizioni fa, nel 1949, si premiavano le prime vere e proprie serie televisive americane: quelle che raccoglievano tutta la famiglia assieme, che portavano l’immagine dell’America al resto del mondo. Ora, settanta edizioni dopo, ci troviamo davanti ad un’industria televisiva (e un’America) in uno stato poco comprensibile, che cerca direzione nei giudizi riposti fra le mani degli scrittori Michael Che e Colin Jost. Impegnati da anni nella scrittura settimanale di Saturday Night Live, presentano loro gli Emmy del 2018 all’interno della Microsoft Arena: lustre, moderna casa alla settantesima edizione della premiazione. Come ogni anno, dagli “Oscar della televisione” si attendono soprattutto i nomi delle tre sorelle: la miglior serie drammatica, la miglior commedia, e la miglior miniserie, per poter capire soprattutto chi, all’interno dell’industria televisiva americana, sappia produrre i migliori contenuti.
Come miglior serie drammatica, “Game of Thrones” ritrova lo scettro ceduto l’anno scorso a “The Handmaid’s Tale”, battendo, oltre ad essa, anche nuovi colossi della streaming culture americana come “Stranger Things” e “Westworld”. Detentore del record assoluto di 47 Emmy Awards, e acchiappante ritratto di carnalità e umanità in un fantastico mondo di draghi, politica, e tradimento, il fenomeno mondiale targato HBO ritrova il conforto del suo immenso successo. L’emittente televisiva americana a pagamento, costante produttrice di poche serie televisive dai costi di produzione elevatissimi, è di conseguenza da sempre regina degli Emmy. Aggiunge al palmares del 2018, oltre a venti premi minori, anche due Emmy per le interpretazioni da protagonista da parte di Bill Hader e di sostegno da parte di Henry Winkler nella comicità della serie “Barry”.
Guardando alla più felice delle due facce del teatro, il premio per la miglior commedia del 2018 va, a sorpresa, a “The Marvelous Mrs. Maisel”. La serie prodotta da Amazon ci presenta una donna che, navigando nell’incertezza e solitudine dei postumi di un divorzio, fa del cabaret e della commedia un’elegante zattera di salvataggio. Interpretata con spirito ed effervescenza dalla vincitrice del premio “miglior attrice” Rachel Brosnahan, l’irriverente protagonista si ritrova a sbattere il muso contro le pareti di sessismo e disuguaglianza che tappezzano i palazzi di una curatissima New York allo scadere degli anni ‘50. Assieme ad alcuni premi minori, l’incoronazione dell’ambizioso period-piece delinea un ghiottissimo bottino per il giovanissimo streaming service griffato Jeff Bezos.
Il premio alla miglior miniserie viene consegnato invece a “The Assassination of Gianni Versace: An American Crime Story”, prodotta da FX. Sarà dunque da rimandare il grande brindisi in casa Netflix? Forse, se tutto lo champagne non fosse stato esaurito all’annuncio delle candidature. Tra tutte le case produttrici presenti agli Emmy, infatti, Netflix giganteggia vantando il maggior numero totale di candidature: una vittoria che vale molto più del sommo riconoscimento di una sola serie. Infatti, pure senza un premio per la “miglior serie”, con ventitré riconoscimenti (lo stesso numero di statuine ricevute da HBO), tra i quali spicca quello a Claire Foy come protagonista di “The Crown”, il colosso dello streaming gode solo di ottimi motivi per sorridere nel 2018. Questo mare di candidature e spiaggia di vittorie promuove a pieni voti il modello espansivo del catalogo di Netflix, e ne è un brillante riflesso. Intraprendendo più progetti a costi ridotti, i servizi streaming offrono la possibilità di produrre più varietà, d’intraprendere nuove esplorazioni televisive. Esplorazioni che aziende come HBO, dove la fabbricazione creativa è limitata dalle esistenti produzioni ad altissimo costo, non possono intraprendere. Il pubblico di Netflix invece, grazie ad investimenti sopra gli 8 miliardi di dollari in nuovi contenuti originali a basso costo, può scegliere la propria serie sotto un’infinità di diverse forme, dalle più corte alle più lunghe, dal thriller all’umorismo, senza alcun apparente limite, e senza una discrepanza palpabile in termini di qualità. Proprio questa sconfinatezza nella scelta annulla la sconfitta e distrugge le basi ideologiche sulle quali essa si posa.
In quest’era digitale, dopo tutto, la sconfinatezza è, e deve essere, lo standard. Esistiamo in perenne contatto con l’immensità dell’informazione, e non appena ne nutriamo il desiderio, abbiamo il magico potere di convocare qualsiasi immagine, storia, o contenuto ci possa interessare. Per alcuni è così da vent’anni, mentre per altri più giovani non è mai esistita altra realtà. Una libertà di movimento intellettuale pressoché totale, che ci aiuta nel volare da una cosa all’altra. Appena una finisce di stuzzicarci l’interesse, si salta alla prossima. D’altronde, pur questi sbalzi di interesse vengano spesso rimproverati ai giovani, le destinazioni verso le quali balzare brillano sempre un’attraente luce di infinità. Rifugiandosi all’interno di esse si esplorano nuovi pensieri, nuove prospettive, che, una volta digerite, spingono inesorabili verso un nuovo tassello sul quale saltare. La tecnologia fluidifica i nostri interessi, scioglie le nostre passioni e ci spinge verso nuovi modi di capire.
L’industria televisiva classica, ed il concetto degli Emmy Awards con lei, fanno l’opposto: dividono e categorizzano. Sebbene con budget enormi, HBO produce poche, pochissime serie tv, con distinzioni narrative e strutturali assolutamente insufficienti per soddisfare questa digitale sete di varietà. Netflix, o altri servizi streaming come quello di Amazon, offrono invece, oltre all’immediatezza d’uso, una varietà di scelta molto più vicina all’infinità. In sostanza, offrono ai nostri interessi la possibilità di cambiare e di trovare riscontro nell’immensità e diversità dei loro contenuti. Non è un caso allora, che gli Emmy Awards del 2018 abbiano registrato gli ascolti più bassi della storia recente delle cerimonie. Solamente 11 milioni di persone hanno seguito la cerimonia in televisioni, quasi il 50% in meno rispetto ai numeri dei primi anni 2000. D’altronde, cosa c’è di meglio, nell’era dell’immediato e del vario, di tre ore di premeditata diretta televisiva, per scoprire quale serie è migliore nella sua categoria.
Silente, la varietà di contenuti che offre questa nostra realtà digitale inghiotte anche la possibilità di dichiarare dei vincitori, poiché inghiotte le categorie stesse. La cerimonia in sé, con proposta di matrimonio in diretta tv compresa, diventa futile, inconseguente, parte di un esasperato cenno di disperazione lanciato dal vecchio, spezzettato concetto di televisione. Nonostante il mondo sembra comunque volersi rilassare davanti al nuovo episodio della giusta serie televisiva, il silenzio e il contegno e la solitudine che hanno circondato le piccole statuette d’oro di quest’anno accennano al mondo il divario tra ciò che la televisione è e ciò che la televisione può diventare. Il caos assordante di riflettori e fotografi si sbiadisce quindi in una pigra nebbia d’infinita indifferenza.