Non è facile scrivere del film Loro 1 senza aver ancora visto la seconda parte, Loro 2, in arrivo nelle sale dal 10 maggio. Paolo Sorrentino sceglie di dividere il suo nuovo lavoro cinematografico in due parti nello sforzo di ricostruire, usando le parole dello stesso regista, “un momento storico definitivamente chiuso che, in una visione molto sintetica delle cose, potrebbe definirsi amorale, decadente, ma straordinariamente vitale”.
Il film, uscito il 24 aprile, non è un biopic su Berlusconi ma un viaggio colorato e spaventoso della storia italiana. Berlusconi per 20 anni è stata l’Italia e l’Italia è stata Berlusconi. Un impareggiabile pifferaio che riflette gli italiani nello specchio delle sue tv. E perciò vince. In Loro 1, il titolo si può leggere anche L’Oro, sembrano riecheggiare le teorie sul “carattere nazionale degli italiani” che hanno il fine pedagogico di denunciare i vizi, e magari, qualche volta, per esaltare le virtù dell’italianità.
Ormai abbiamo da lungo tempo metabolizzato la cifra stilistica di Sorrentino colmo di manierismi al limite del macchiettistico. Loro 1 è un’opera che si auto compiace che mostra il modo in cui il regista si diverte a costruire diversi livelli interpretativi che ricuciti insieme testimoniano la sua completa mancanza di una sensibilità cinematografica che non sia solo appariscente.
La laboriosa e faticosa narrazione della prima parte ruota intorno a “Loro”: politici parassiti, sfruttatori, abili parlatori, ideologhi al potere e un esercito di donne avvenenti. Se molti personaggi sono reali, altri sono inventati mentre altri ancora misti come l’ex ministro di Fabrizio Bentivoglio, crasi di Bondi e Formigoni. Tutti comunque sono ingranaggi di un sistema ben oliato di scambio tra sesso, potere e denaro, all’interno del quale a ciascuno tocca una parte prestabilita, e nel più dei casi tutt’altro che edificante, per arrivare al più potente, a ‘Lui’, non se ne vede il volto, ma si sa che tutti lo chiamano ‘Dio’.
Così per i primi 100 minuti ci ritroviamo a guardare il remake de “La Grande Bellezza” ma in versione più hard con Riccardo Scamarcio nel ruolo di un piccolo imprenditore pugliese, (Gianpaolo Tarantini?) che ci annoia con la sua corte di coca e mignotte. Le apparizioni di animali qua e là, dalla pecora al rinoceronte, dal dromedario al ratto, sono talmente scontante nella loro estetica, come nel loro “operato”, da generar solo sbadigli. Fino a quando ormai ridotti ai minimi termini vediamo comparire sullo schermo Toni Servillo con una maschera con parrucchino incorporato a metà fra il gommoso e il patinato della pelle e l’attaccatura alquanto innaturale dei capelli. Dalle infinite sequenze di feste dove tutti “scopano” con tutti, ci ritroviamo catapultati nella quiete verdeggiante della villa di Berlusconi in Sardegna.
E’ l’inizio di una lenta deriva grottesca che finisce per restituirci paradossalmente un ritratto inedito e quasi umano di Berlusconi. Sorrentino prova a immaginare le emozioni, le paure, le delusioni di un uomo che si ritrova ad affrontare la sconfitta alle politiche del 2006 vinte da Prodi e il disprezzo di una moglie, Veronica Lario interpretata da Elena Sofia Ricci, disgustata dalle vicende riguardanti i rapporti extraconiugali del marito con escort e giovani ragazze.
Il regista lascia la politica ai margini e noi alle prese con un mistero da risolvere. Cosa aveva in mente con questo film? Rendere omaggio o, al contrario, smitizzare e ridicolizzare una delle personalità più conosciute e discusse del paese?
Ma soprattutto abbiamo bisogno di un film che continua a ricordarci di avere avuto come primo ministro un uomo capace di nascondere la vergogna sotto chili di cerone?