Diciamolo: è stata un delle notti degli Oscar più piatte e noiose che si ricordino. L’impeccabile Jimmy Kimmel ha infatti fatto scivolare via una serata mediocre e piatta, senza colpi di scena e senza emozioni. Nonostante la ricorrenza del novantesimo anniversario delle prestigiose statuette, nulla di memorabile si è visto nella serata di Los Angeles. Una certa ingessatura complessiva, forse un intero estabilishment che si muove “sulle uova”, attento a non romperle, vista l’aria che tira: attenzione esibita e marcata a tutte le minoranze, inclusività a ogni costo e grande autocritica sul tema del sexual harassment. Battute e gag sono state tristemente ripetitive (anche quelle sull’envelope gate, il caso-busta dello scorso anno) e incentrate su pochi temi, affrontati senza mordente. Insomma, Hollywood ha voluto dare un’immagine ecumenica, lodevole ma a tratti un po’ forzata e soprattutto drammaticamente distante dal paese reale, tutt’altro che inclusivo ed ecumenico, rispetto al quale la blanda cerimonia non ha assolutamente avuto né la forza né la capacità di diventare denuncia o protesta.

La statuetta più prestigiosa, del resto, è andata a un film in piena sintonia con questa linea, quel “The Shape of Water” (“La forma dell’acqua”) che, già Leone d’oro a Venezia, è poco più che un buon film, un po’ vecchiotto e semplicistico nella rappresentazione favolistica di un amore border line tra un’immigrata sordomuta e il mostro della laguna; peccato, perché mai come quest’anno il livello qualitativo dei film nella deca di candidati era particolarmente alto, con opere come “Dunkirk” di Chris Nolan o “Phantom Thread” (“Il filo nascosto”) di Paul Thomas Anderson che si sono dovuti accontentare di premi più tecnici. Peccato anche per “Call me by your Name” (“Chiamami col tuo nome”) del nostro Luca Guadagnino, che perde la competizione più importante ma che permette comunque, però, a un gigante come James Ivory di aggiudicarsi una più che meritata statuetta per la miglior sceneggiatura non originale.
Secondo copione i premi agli attori: Gary Oldman vince un meritato riconoscimento per “The Darkest Hour” (“L’ora più buia”) e Frances McDormand per “Three Billboards Outside Ebbing, Missouri” (“Tre manifesti a Ebbing, Missouri”); i non protagonisti sono Sam Rockwell (sempre per “Tre Manifesti”) e Allison Janney per “I, Tonya”. Fa notizia il premio a Jordan Peele per la miglior sceneggiatura originale, non solo perché si tratta della prima volta che questa categoria vede trionfare un afroamericano, ma anche per il giusto riconoscimento allo straordinario “Get Out” uno dei film più riusciti e più “politici” della stagione, che rimane però un film di genere, categoria poco vincente agli Oscar.
Infine, il premio per il miglior film straniero, pur premiando un’opera non memorabile, conferma il buono stato del cinema cileno e viene assegnato a “Una mujer fantástica” (“Una donna fantastica“), di Sebastian Lelio. La bravissima protagonista del film, Daniela Vega, passerà alla storia come la prima attrice transgender a salire sul palco della cerimonia più ambita del cinema mondiale, per presentare Sufjan Steven e la sua performance di “Mystery of Love”.
Quando cala il sipario, si spengono le luci, l’impressione è di aver guardato per ore dentro a una bolla irreale. La singolare coincidenza con i risultati elettorali provenienti dall’Italia, sembra ribadire che lo show liberal del Dolby Theatre sia, ahinoi, quanto di meno rappresentativo si possa immaginare.