Eva di Benoît Jacquot
Nel film in concorso alla 68esima edizione della Berlinale, il regista e sceneggiatore francese unisce due passioni: il suo amore per gli adattamenti letterari e un debole per Isabelle Huppert. Un vecchio autore di best-seller muore improvvisamente nella vasca da bagno. Il giovane Bertrand (Gaspard Ulliel), testimone della sua morte scompare con il manoscritto dell’ultima opera. Lo pubblica con il suo nome e il romanzo diventa un successo. Ma Bertrand difficilmente potrà far fronte alla pressione di chi gli chiede un altro capolavoro. Confida nell’incontro con la nobile prostituta Eva (Isabelle Huppert) come fonte di ispirazione. Un aspirante scrittore e una femme fatale sono i protagonisti di una storia che aveva il potenziale di un grande film. Eppure Jacquot riesce a rovinare tutto. Il film si perde in un labirinto di riflessioni sulla falsa identità e sul processo creativo mentre i protagonisti emergono o scompaiono in una delle tante brusche ellissi temporali del film.

Dovlatov di Alexey German Jr
I testi di Sergei Dovlatov scovavano l’umorismo nei luoghi in cui nessuno l’avrebbe cercato. Le sue opere non venivano stampate perché gli editori non volevano pubblicare la bruciante verità sull’Unione Sovietica descritta nei suoi racconti. Ma questi circolavano ugualmente come copie illegali. La sua storia di scrittore clandestino è raccontata in uno dei migliori film visti finora alla Berlinale. Il regista russo, già Leone d’Argento per “Under Electric cluods”, rende omaggio ai russi intellettuali dissidenti che venivano espulsi dalla servizievole Unione degli Scrittori perché si rifiutavano di adattarsi, di pensare in un modo e vivere in un altro. A fare da contraltare alla stagnazione economica e cultura dell’Unione Sovietica degli anni 70, la telecamera è in costante movimento mentre insegue i tentativi di Dovlatov di non scendere a compromessi con il regime. L’approccio di German jr è surrealista, quasi un cadavre exquis per ricordare come fosse ridicola la propaganda sovietica, e come nessuno la prendesse seriamente, non solo in Occidente ma anche all’Est.

Transit di Christian Petzold
Il regista tedesco che nel 2012 ha vinto l’Orso d’Argento per la miglior regia con “Barbara”, questa volta porta in concorso alla Berlinale 2018 un film ispirato all‘omonimo romanzo autobiografico di Anna Seghers del 1944. Mentre il sole immerge Marsiglia in colori brillanti estivi, il protagonista Gregor, Franz Rogowski, sta cercando la perfetta “strategia di fuga“ dalla Francia occupata dai nazisti negli anni ’40. Ma solo una manciata di oggetti di scena rimanda all’epoca di Hitler: lettere di Sütterlin, una siringa di morfina e una vecchia valigia. L’ ambientazione di “Transit” dove invece di nazisti in giacche di pelle, troviamo la polizia speciale che indossa i moderni equipaggiamenti anti sommossa porta il romanzo di Seghers nel presente. “La cosidetta crisi dei rifugiati ha avuto per reazione la crescita di partiti xenofobi o identitari in molti paesi europei – ha detto il regista tedesco in conferenza stampa. Petzold ci mette così davanti ad una distopica visione dell’Europa dove i neofascisti tornano al potere costringendo intellettuali , dissidenti e perseguitati a emigrare verso nuovi mondi: che sia il Messico o gli Stati Uniti, come nell’Olocausto, è una questione aperta.

Happy Prince di Rupert Everett
Nel suo debutto alla regia l’attore britannico paragona il poeta e il drammaturgo Oscar Wilde a Gesù. In “Il Principe Felice”, presentato nella sezione Panorama della Berlinale, interpreta se stesso nel ruolo di Wilde per raccontare il tragico capitolo finale della vita dell’autore costretto all’esilio in Italia, Belgio e Francia a causa della sua omosessualità. “Oscar era un grande genio ma anche un grande essere umano”, ha detto il regista in conferenza stampa. Everett con la sua magistrale interpretazione copre le pecche di una sceneggiatura sfilacciata che rallenta e poi riparte e di una regia ordinaria che vede nel cast anche Emily Watson nel ruolo della moglie di Wilde. La sua visione personale del dramma di Wilde non impedisce comunque a Everett di tentare una sorta di auto biografia postuma e rendere giustizia ad un uomo prima osannato dalle masse e poi abbandonato a se stesso.