L’apertura della dodicesima edizione della Festa del Cinema di Roma è stata affidata a storie che hanno profondamente scosso la coscienza della società americana negli ultimi anni. Da Detroit di Kathryn Bigelow che rievoca uno dei più tragici e sanguinosi episodi della storia statunitense a Stronger di David Gordon Green su Jeff Bauman la cui vita che è cambiata per sempre dopo l’attentato di Boston nel 2013. La prima star a calcare il Red Carpet di Roma è stato invece Christoph Waltz che ha incontrato il pubblico di Roma per raccontare la sua storia da Villain del cinema. Infine a chiudere la prima tornata di film che fa ben sperare sulla qualità della programmazione dei prossimi giorni, The Party, di Sally Potter.

Detroit di Kathryn Bigelow
Potremmo definirla una sorta di Trilogia della Ferita Americana quella che la regista Kathryn Bigelow conclude (ma questo si vedrà) con Detroit, film presentato alla 12. edizione della Festa del Cinema di Roma. Detroit completa il quadro di una serie di film incentrati sui problemi più profondi dell’America di oggi. La “colpa” di una guerra in Iraq in “The Hurt Locker”, la caccia ad Osama Bin Laden e gli interrogatori-tortura in “Zero Dark Thirty”, ed ora con Detroit arriva alle radici dell’odio razziale. Raramente un film ambientato 50 anni fa può parlare così chiaramente e profondamente dei problemi dell’oggi. E non parliamo solo di problemi americani. Il film riporta in auge molti episodi anche italiani, come la violenza perpetrata dagli agenti di polizia a Genova durante il G8, l’uccisione di Stefano Cucchi o quella di Federico Aldrovandi. Senza contare le ancora attuali guerre religiose e continui episodi di odio razziale in tutto il pianeta.
Il nocciolo del film narra ciò che accadde tra il 23 e il 27 luglio 1967 a Detroit, durante i cosiddetti “riots” e precisamente mette il focus nell’Algiers Motel. L’edificio gestito da alcuni ragazzi neri vide consumarsi una notte di puro terrore nel quale persero la vita tre ragazzi afro-americani e molti altri, tra cui due ragazze bianche, vennero pestati a sangue. Accusati e assolti furono tre poliziotti bianchi e una guardia di sicurezza di colore. Da quando Bigelow ha iniziato a girare il film sono stati quattro i neri uccisi dalla polizia americana. E siamo nel 2017. James Baldwin ha detto “Niente può essere cambiato se non si affronta” e, continua Bigelow, “In America sembra esserci un desiderio radicato di non affrontare il problema della questione razziale. Per cui questi episodi continuano ad accadere. Ecco il motivo forte che mi ha fatto decidere di narrare la storia e prendere posizione”.
Il film è un capolavoro di duro realismo, impossibile continuare a guardarlo a volte, ma impossibile pure togliere gli occhi dallo schermo. Un’escalation di orrore che inizia a prendere lo spettatore dall’inizio, la tensione che sale nelle strade, le rivolte nei quartieri, una Detroit assediata e pericolosa fino a quando si entra all’Algiers Motel, dove tutto avrà un epilogo brutale, calustrofobico e assurdo. Un crescendo di orrore per rivelare in quale abisso di crudeltà possa scendere l’umano. Bigelow ricostruisce i fatti affidandosi agli atti del processo che peraltro rimangono ancora lacunosi, ma quel che è certo è che si esce da questo film con un senso di triste impotenza, di dolore profondo e di amarezza. Un senso di incredulità per non avere ancora compreso che siamo una sola razza, quella umana, e che il nostro compito è evolvere nell’amore, non certo odiarci l’uno con l’altro. La posizione di Bigelow è netta, e nessuno potrà questa volta accusarla di essere dalla parte dei bianchi.
The Party di Sally Potter
“Cosa c’è di più sfidante di una situazione comica che sfocia in drammatica, in una dimensione domestica, ma al tempo stesso politica, dove tutti cercano la verità ma non sanno più quale sia?” Non possiamo assolutamente dare torto a Sally Potter, la regista 68enne di The Party, uno dei film più “divertenti” della sua lunga e indipendente carriera. La storia è geniale, acuta, con dialoghi memorabili, ma soprattutto è, come lei stessa afferma, una sfida nella crisi alla ricerca di una verità personale e politica. Chi sono io se nascondo sempre una parte di me? Se il paese è politicamente allo sfascio, dunque lo sono anche le mie relazioni? Il film è una fucina di questioni, da quello della coppia omosex e alla sua gestione relazionale nella società, a quello di un marito nel ruolo di non protagonista. Janet (Kristin Scott-Thomas) è finalmente riuscita a diventare Ministro della Salute del governo ombra del suo partito e vuole festeggiare insieme al marito (Timothy Spall) e ai suoi migliori amici (i bravissimi Patricia Clarkson, Bruno Ganz, Cillian Murphy, Emily Mortimer, Cherry Jones). Ma a quale prezzo? E’ felice? E le persone intorno a lei lo sono? E chi sono veramente suoi amici? L’occasione di sapere la verità è una cena a casa di Janet, ma ciò che inizia con leggerezza e sorrisi finisce in un climax di rivelazioni e tragedia personale che non può non avere risvolti nel lato pubblico/politico.
Dal femminismo al crollo della democrazia, dalle nuove filosofie spirituali al cinismo più sottile, ogni personaggio rivela un lato di ciò che oggi è diventata in senso più ampio la nostra società occidentale, falsamente democratica, certamente corrotta nei gangli anche meno importanti del potere, divisa e rabbiosa. Al tempo in cui Potter era sul set con i suoi attori, erano appena usciti i risultati della Brexit ed ecco che come lei stessa rivela “quel giorno gli attori e i componenti della crew vennero sul set molto molto tristi. Avevamo argentini, indiani, italiani, francesi e russi a lavorare con noi e di certo ci sentivamo tutti più impauriti, sconfitti, addolorati”. Girato in un bianco e nero tagliente, un rasoio affilato e crudele, la Potter indaga dentro ogni volto con capacità chirurgica. Non c’è una ruga, un’espressione, un’ombra che ci sfugga mentre affondiamo ad ogni minuto dei 71 del film dentro una crisi così profonda che l’unico interrogativo che ci resta alla fine è cosa anche noi stiamo nascondendo a noi stessi e dove andremo a finire comportandoci così. Dentro e fuori dalle nostre case.

Stronger di David Gordon Green
È la storia vera di Jeff Bauman, un sopravvissuto all’attentato del 2013 durante la maratona di Boston. Una vicenda che ha appassionato il mondo intero e che ha trasformato un uomo comune in un simbolo della lotta al terrorismo. L’esplosione di due ordigni in prossimità del traguardo dove Jeff attendeva la sua fidanzata Erin, interpretata dall’attrice canadese Tatiana Maslany, uccide 3 persone e ne ferisce altre 260. Il giovane Bauman è tra questi. Il giorno dopo in ospedale si rende conto che entrambe le gambe sono state amputate. Il film ricostruisce il suo percorso di recupero fisico e psicologico. Un vero e proprio tour de force per l’attore Jake Gyllenhaal che si immedesima completamente in un personaggio la cui vita si è trasformata improvvisamente in un incubo. L’intenzione del regista Green è quella di demolire i cliché dell’eroismo all’americana e mostrare le avversità di un uomo la cui esistenza viene stravolta da un evento eccezionale. La narrazione tuttavia non sempre si sottrae alla retorica di genere con il risultato che il tono melodrammatico prende il sopravvento in alcune scene del film.
“Non mi sento assolutamente un eroe – ha detto il vero Jeff Baumann in conferenza stampa – sono solo un ragazzo normale. I veri eroi sono quelli che mi stanno accanto tutti i giorni e che hanno cambiato la loro vita per me”. Per Jake Gyllenhall, Stronger è un film che gli ha permesso di imparare molto. “Soprattutto il fatto che sono le piccole cose quelle che contano di più nella vita di un uomo, anche se siamo abituati a pensare a grandi rivoluzioni per dover cambiare. Invece no, a volte basta un gesto, una parola. Stare vicino ad un uomo di così grande coraggio come Jeff mi ha fatto certamente pensare a tutta la mia vita e alle mie relazioni, sono molto contento di aver fatto questo film”.