
Ai newyorkesi piace, il NYFF. Ce ne siamo accorti dalle sale piene, e non solo nella sezione principale, il Main Slate, ma anche in quella dei documentari. Ce ne siamo accorti anche dal mettersi in fila delle persone, con un’ora d’anticipo, per ricevere il biglietto gratuito e poter assistere ai talks giornalieri presso l’Amphiteater dell’Elinor Bunin Theater. E ce ne siamo accorti anche dalla quantità di domande rivolte dal pubblico durante i talk o a fine film, quando il regista è presente in sala, nello spazio Q&A.
Ieri si è conclusa la prima settimana del Festival. Se la seconda procede con lo stesso andazzo, questa 55° Edizione potrà essere considerata un gran successo dagli organizzatori. Di certo per noi italiani, un successo lo è già. Call Me By Your Name, è stato accolto calorosamente da pubblico e critica, bissando l’entusiasmo che l’aveva salutato lo scorso febbraio al Sundance Film Festival.

Il film racconta la storia d’amore tra Elio, 17 anni, e Oliver, 24. Elio è un grande lettore, un piccolo genio del pianoforte, poliglotta, nonché rampollo dei Perlman, famiglia dell’alta borghesia ebraica colta italo-franco-americana, che è solita trascorrere le vacanze estive nella villa antica di Crema. Oliver è un dottorando americano che si ritrova a trascorrere sei settimane nella villa della famiglia Perlman per lavorare con il padre di Emilio, docente di studi classici.
Tratto dall’omonimo romanzo di André Aciman, Call Me By Your Name è stato co-sceneggiato da James Ivory. E di Ivory s’intravede la mano, a cui piace indugiare sull’estate italiana come stagione esistenziale — ricordiamo tutti Camera con vista. Nello specifico del film, le sei settimane che Oliver trascorre presso la villa dei Perlman coincidono con la formazione/educazione sentimentale di Elio, che prende coscienza della propria omosessualità.
“Conosco Ivory da tanto”, dice Guadagnino in conferenza stampa, “ed è stato il vero padrino di questo film. Aveva molto a cuore la storia, ma mettere insieme il film è stato estremamente difficoltoso. Rinviato più volte, il budget molto ridotto… Poi con James ci siamo trovati a fantasticare su come poterlo realizzare. E alla fine ce l’abbiamo fatta. Ci siamo presi molte libertà rispetto al libro, che è narrato dalla prospettiva di Elio. Abbiamo spostato l’ambientazione da Bordighera a Crema — la mia città — e alcune scene sono state girate anche nel giardino di casa mia”, aggiunge Guadagnino.
Il film è ben più di una storia d’amore, ed è ben più di un semplice coming-of-age, come si dice in inglese il Bildungsroman, il racconto di formazione. “Il film è un idillio e chiude la trilogia che ho cominciato con Io sono l’amore — che è una tragedia — e A Bigger Splash — una sorta di farsa. Volevo evitare i cliché del coming-of-age. Il film tratta piuttosto la natura del desiderio, come reagiamo quando diventiamo oggetto del desiderio di qualcuno, e anche, certamente, come si comporta un adolescente quando si trova in una situazione così destabilizzante come l’amore. Lessi una volta che il corpo di un adolescente è un corpo ‘in the making’, in fieri. E questo porta ad atti inaspettati, imprevedibili”, continua Guadagnino, riportandoci alla memoria la scena della pesca, un momento dall’alto tasso erotico di cui la stampa e il web hanno già parlato molto.
“Mi piace pensare che sia un film anche sulla famiglia e sulla transizione di certi valori da una generazione all’altra”. Con queste parole il regista si riferisce a un bellissimo — e utopico — monologo finale del padre al figlio. Una dichiarazione di rispetto nei confronti di ogni forma di amore, di comprensione totale verso l’orientamento sessuale del figlio, e di incoraggiamento a vivere fino in fondo ciò che il ragazzo ha vissuto, e a considerare l’amicizia con Oliver qualcosa di speciale e unico.

Diciamo utopico perché si sentono spesso storie di giovanissimi che si uccidono piuttosto che rivelare ai genitori la propria “diversità”, o di genitori che, con la loro freddezza o violenza, anche solo verbale, li allontanano. Il padre di Emilio è tutto ciò che un padre dovrebbe essere. E così la madre: discreta, comprensiva, perdutamente innamorata del figlio, ma libera dalla morbosità delle madri italiane. Ha ragione, pertanto, Guadagnino, quando definisce la pellicola “un idillio”. Tutto si compie nell’universo chiuso e protetto della villa. Non c’è relazione con il mondo fuori, con la discriminazione, i problemi a cui gay, lesbiche, trans, LGBT sono sottoposti nella società. “Non mi interessava la classica storia d’amore omosessuale contrastato”, precisa a questo proposito Guadagnino.
Vedendo il film, ritorna in mente il capolavoro di Kechiche La vita di Adèle, in cui due ragazze trovavano l’amore l’una nell’altra, e il dolore, l’infinito dolore quando la storia finiva.
Anche in Call Me By Your Name, c’è, il dolore. Perché l’estate è tragica di per sé nella sua finitezza. E infatti arriva il momento in cui Oliver deve tornare in America. E la scena forse più toccante, quella in cui senti il cuore pulsarti in gola, è inserita dopo i titoli di coda. Una scena in cui Elio, alias Timothée Chalamet, ci regala una prova da attore navigato dentro un corpo da diciassettenne, che lo posiziona nel gotha delle giovani promesse del cinema internazionale.
E sì, è indiscutibilmente un film sul desiderio. I lunghi pomeriggi assolati a bordo piscina, i pranzi domenicali all’ombra di grande albero, i giochi con gli amici, i bagni nel fiume. Quel particolare e irripetibile senso di mollezza che si vive solo nelle estati adolescenziali, quando tutto sembra immobile, e il silenzio è interrotto solo dalle cicale, dall’acqua di una fontana. E dallo scricchiolio delle tue ossa che cercano la loro via verso l’età adulta.
Non si vede nulla, nel film, di trivialmente sessuale. Pochissima pelle, nulla di scandaloso. Guadagnino è abile a catturare tutto quello che sta intorno, e a immortalare sguardi, silenzi, piedi che si sovrappongono e stillano più eros di qualsiasi amplesso. “Non sono interessato al sesso tra due persone quando è fine a se stesso. Mi interessa quando porta altro, quando allude ad altro. Trovo molto più erotico riprendere due piedi che si sfiorano piuttosto che una scena esplicita. Mi piace la libertà di spostare lo sguardo della cinepresa su una finestra, e lasciare l’intimità ai personaggi. E’ liberatorio”.
Ed è anche piacevole, per lo spettatore, assistere al ritrovamento di una statua classica, da parte del padre di Elio, Elio e Oliver, nelle acque del lago di Garda, vicino a Sirmione. Quella scena, con la statua che riemerge dai flutti, ammirata da padre, figlio e amante del figlio, quello stupore estatico che colpisce l’uomo davanti al bello e all’inaspettato — il ritrovamento di un reperto archeologico lo è per sua stessa natura — unisce i tre in un rapporto di complicità che nessun rito “maschio alfa” potrebbe mai eguagliare. E’ un punto centrale del film, che rimarca la dimensione idilliaca auspicando che le cose possano essere così, un giorno. E che un padre e un figlio possano condividere anche un istante di ellenica bellezza, oltreché una partita di calcio.

Il film è ambientato nel 1983, ma non troverete i capelli cotonati e laccati, le giacche con le spalline squadrate e tutti quegli elementi che rendono il mondo 80s immediatamente riconoscibile. “Era molto importante per me non cadere nel datato e nello stereotipo degli anni 80. Quel decennio, così come tutti i periodi storici, non sono sempre necessariamente come pensiamo che siano stati. Si poteva vivere benissimo anche senza spalline gigantesche e acconciature improbabili… Così come era importante la musica. Abbiamo affiancato brani classici che Elio, da pianista-musicista, suona — Debussy, Bach — alle hit che si ascoltavano nell’estate dell’‘83 — The Psychedelic Furs con “Love My Way” — ai due pezzi che Sufjan Stevens ci ha scritto per il film, e che hanno rimpiazzato la narrazione in terza persona a cui avevamo pensato all’inizio”.
Quando chiediamo al regista qual è il suo rapporto con l’Italia, visto che miete più successi all’estero, e la sua cinepresa è molto richiesta oltreconfine, ci risponde così. “Tilda Swinton, attrice con cui ho avuto il piacere di lavorare, una volta mi disse ‘Le cose arrivano col tempo’. Concordo. Ci vuole tempo. Sono molto orgoglioso di essere italiano — e algerino, da parte di madre. Ma sono anche molto curioso verso il mondo”.
Il film uscirà in Italia il 24 novembre e speriamo che l’Italia si dimostri un po’ più calorosa verso questo regista dall’indubbio talento.

Insieme a Guadagnino, nel Main Slate, abbiamo trovato anche Noah Baumbach, regista brooklynita che firma commedie sofisticate assai osannate dall’intellighenzia newyorkese. L’ammirazione che la città nutre nei suoi riguardi si traduce in un talk gremitissimo, e in un tutto-esaurito alla prima di The Meyerowitz Stories (New and Selected) presso la grande sala dell’Alice Tully Theater.
The Meyerowitz Stories (New and Selected) è una family comedy che mescola la giusta dose di bitter-sweet, fun e melancholy, beneficiando — e non è poca cosa — di un cast di star come Dustin Hoffman, Emma Thompson, Ben Stiller, Adam Sandler. Non c’è molto di nuovo e non-visto, per la verità: una serie di personaggi più o meno loser, impacciati, insicuri, di woodyalleniana memoria, a cui siamo interessati non tanto per le vicende che capitano loro, quanto per l’umanità che riescono a veicolare attraverso la loro fallacia. Tuttavia, che Baumbach sia un regista abile è provato dal fatto che prende un attore da commedie cheap come Adam Sandler, e ne tira fuori un personaggio riuscitissimo, capace di oscurare persino quel gigante della recitazione alto un metro e sessanta che è Dustin Hoffman.

Se Baumbach, in qualche modo, vince facile — è al suo decimo lungometraggio, dopotutto — il banco di prova per la sua compagna, Greta Gerwig, è ben più impegnativo. Alla sua prima vera prova da regista con Lady Bird, Gerwig ci regala un film godibilissimo e ben diretto, a metà tra racconto di formazione, commedia brillante e dramedy. E’ la storia di Christine, ragazza all’ultimo anno di liceo che rifiuta di farsi chiamare con il nome di battesimo e assume l’identità di “Lady Bird”. Non è difficile leggere, dietro questo suo cambio di nome, il desiderio di fuggire da tutto ciò che il suo nome le ricorda: una casa in periferia, una madre ipercritica, un padre fragile e senza lavoro, i problemi ad arrivare a fine mese. Lady Bird può volare via anche solo con l’immaginazione, o con le ali di un nome.
Il film immortala l’ultimo anno di liceo e l’agognata partenza per il college, a New York City, lontano da Sacramento, che Lady Bird vuole lasciare con tutta se stessa.
“Il coming-of-age di qualcuno coincide sempre con il letting-go, la perdita, per qualcun altro”, dice Great Gerwig in conferenza stampa. “M’interessava investigare questo punto, accostando il processo di maturazione di Lady Bird e la madre, che alla fine deve rinunciare alla figlia. Mi interessava anche la questione di classe, che viene trattata pochissimo in America e nei film americani: Lady Bird vive ‘dalla parte sbagliata dei binari’ e sogna le ville ricche del quartiere dalla parte giusta dei binari”, continua Gerwig. “Ho ambientato il film tra il 2002 e il 2003 perché penso sia l’ultima generazione su cui sia possibile ambientare un film. Oggi i teenager sono tutt’uno con i loro smart-phone. Su cosa giri un film?”.
E c’è ben poco di retorico dietro la domanda della Gerwig.
Lady Bird è molto divertente, ma come nel caso delle opere di Baumbach, ha un retrogusto malinconico che salva il film dalla categoria “commedia senza pretese”. E benché la trama non aggiunga nulla di nuovo al tropo dello studente liceale che non vede l’ora di essere accettato da qualche college, in genere sulla costa opposta a quella in cui abita, e alla fine spicca il volo, il modo in cui Gerwig trova per raccontarlo, con ironia, profondità ed empatia, colloca il film in uno spazio più alto, più sofisticato — occupato, come dicevamo, da molte delle commedie del compagno.
Questa settimana, ancora Italia, con la Master Class insieme a Vittorio Storaro e il documentario Piazza Vittorio di Abel Ferrara.
Stay tuned, come dicono da queste parti…