Guardando Easy – Un viaggio facile facile, ritorna in mente la teoria dell’iceberg di Earnest Hemingway. “Io cerco sempre di scrivere secondo il principio dell’iceberg. I sette ottavi di ogni parte visibile sono sempre sommersi. Tutto quel che conosco è materiale che posso eliminare, lasciare sott’acqua, così il mio iceberg sarà sempre più solido. L’importante è quel che non si vede. Ma se uno scrittore omette qualcosa perché ne è all’oscuro, allora le lacune si noteranno”.
Così funzionava, per Hemingway, la teoria dell’iceberg. E aveva ragione: l’importante è quello che non si vede. Quello che viene taciuto, o solo evocato.
Dietro al personaggio di Isidoro, detto Easy, il protagonista dell’opera prima di Andrea Magnani interpretato da Nicola Nocella, c’è tutt’un vissuto che intravediamo soltanto, grazie a un uso molto maturo e oculato dei dialoghi, dei tempi, dell’ellissi.
Pertanto, sembra proprio sposare la teoria dell’iceberg, Magnani, che fa riecheggiare il film di silenzio piuttosto che di parole, che preleva il suo protagonista dall’urbano quotidiano e lo piazza in mezzo all’essenziale rurale del paesaggio ucraino.
Less is more imperat.

Isidoro, detto Easy, è un trentacinquenne sovrappeso che vive con playstation e antidepressivi sempre a portata di mano. Una madre che gli preferisce platealmente il fratello maggiore e che lo ingozza di cibi dietetici certo non aiuta — molto convincente il cameo interpretato da Barbara Bouchet. Non aiuta nemmeno aver infranto il sogno di diventare un campione mondiale di automobilismo dopo un esordio brillante nei go-kart, da ragazzo. Easy viene letteralmente trascinato fuori da questa sua quotidianità all’odor di Prozac dal fratello Filo, un costruttore edile con la coscienza non proprio linda che gli chiede un favore, “un lavoretto facile facile”: trasportare una bara con il corpo di un muratore ucraino, morto in cantiere, nel suo villaggio di origine, sui Carpazi.
Il film è il viaggio di Easy attraverso l’Ucraina nel corso del quale si trova ad affrontare situazioni a dir poco improbabili, specie dopo che gli rubano il carro funebre — lasciandogli ovviamente il feretro. Dal furto in avanti assistiamo a una carrellata di disavventure di fantozziana memoria che tuttavia non ridicolizzano mai il personaggio. Lo collocano piuttosto nella dimensione meschina e illimitata del “capitabile” umano: te ne possono succedere di tutti i colori — letteralmente, se pensiamo che, a un certo punto, la bara e il cappotto di Isidoro diventano addirittura muri per graffittari… L’importante è lo sguardo che si assume. Isidoro, forse caratterialmente, o forse perché spinto da una giovinezza segnata dalla delusione — altrui più che sua — mantiene un candore, uno stupore, che gli permettono, in definitiva, di superare, pur rocambolescamente, tutti gli imprevisti che gli capitano. E gliene capitano.
Tuttavia Easy non è un semplice Candide, una tela bianca pronta a tingersi con le esperienze della vita. Su di sé, metaforicamente e non, porta chiari i segni del suo vissuto, del suo malessere — gli attacchi di panico, la depressione, l’obesità. A tratti tornano alla mente certi personaggi miyazakiani — per candore e stazza sicuramente Totoro — portatori di una malinconia esistenziale che va ben oltre le sventure canoniche che toccano a tutti. Rimanendo a casa nostra, non possiamo fare a meno di avvicinare idealmente il toro dell’omonimo film di Mazzacurati e la bara di Easy: Abatantuono attraversava l’est Europa in cerca di denari, Easy l’Ucraina, in cerca di se stesso.
Odissei moderni, fallati. Umanissimi.
La domanda a cui Easy è chiamato a rispondere davanti a ogni nuova traversia che gli si propone è sempre la stessa, un quesito che sintetizzerà il momento più prezioso e coraggioso del film: “e adesso, che faccio?”.
Grazie a questo personaggio dal potenziale iconico terribilmente alto, Magnani riesce a sfilare questa domanda dalla contingenza e a portarla su un piano più alto, filosofico. E noi spettatori usciamo dalla sala portandola con noi. Perché, in fondo, questo è l’interrogativo davanti al quale tutti noi siamo chiamati a rispondere, infinite volte nel corso di una vita, proprio come Easy nel corso del suo viaggio.
E adesso, che facciamo?
Quando il singolo sullo schermo parla al collettivo in sala, allora il cinema ha fatto il suo dovere.

Abbiamo avuto la fortuna di rivolgere alcune domande al regista. Magnani al momento si trova in Italia per il tour promozionale del film che lo terrà impegnato fino a fine settembre, e che attraverserà tutta l’Italia, da Trento a Palermo, da Catania a Belluno, toccando più di trenta città. Il regista è anche reduce dal successo alla 70esima edizione del Festival di Locarno, che ha assegnato il Boccalino d’Oro come miglior attore a Nicola Nocella — riconoscimento più che meritato.
Il cinema è l’arte dell’immagine. Dicci da quale immagine nasce il film. Descrivicela così come ti è apparsa e poi spiegaci come l’hai sviluppata fino a farla diventare Easy.
“Più che immagine direi che c’era una voglia. La voglia di poter raccontare un personaggio e farlo in maniera libera, cioè senza appesantirlo con delle trame secondarie o dei personaggi che lo accompagnassero. Quindi ho pensato che la cosa migliore fosse quella di farlo accompagnare da una bara, che ovviamente non è un personaggio, ma che è uno specchio in cui il personaggio si riflette e a cui in qualche modo si confida. Poi certo, l’immagine di un uomo che trascina una bara, per me, è sempre stata un po’ intrigante. Non saprei dire quando e come è nata. Forse in me — magari inconsciamente — c’è anche quest’idea di cinema un po’ western, di personaggi che attraversano queste terre andando verso destini sconosciuti”.
Definiresti Easy una commedia malincoMica? Mi chiedo quanto della commedia amara all’italiana ci sia nel tuo film e nel tuo DNA. Ritieni che il tuo linguaggio, o i tuoi intenti, si accostino a quelli dei Germi, Monicelli, Scola, ecc, o che vi si discostino?
“Magari potessi accostare il mio film, che è il primo, a quelli dei grandi maestri della commedia all’italiana, e non solo! Io penso comunque che questo sia un film italiano. Nonostante abbia un’ambientazione diversa, dell’Ucraina, e quindi dell’Est Europa, è un film italiano. Lo sguardo, è italiano. La mia speranza è che possa essere un film che abbia una sua collocazione come film italiano e che possa essere riconosciuto come tale”.
Tu sei anche autore del tuo film. In genere tra uno scrittore e i suoi personaggi s’instaura un rapporto molto profondo, quasi simbiotico. Di sicuro molto empatico. Parlaci del tuo legame con Isidoro. Con il suo animo e con il suo fisico.
“Un mio amico greco, un regista, una volta mi disse: “C’è sempre qualcosa della tua famiglia nei personaggi e nei film che scrivi”. Ora, io non so se Easy sia qualcuno della mia famiglia, però è sicuramente un personaggio che mi porto dietro da molto tempo, e ha qualcosa che, per me, è molto famigliare. Come per esempio, la scarsità di dialogo, la ritrosia a parlare. Ecco, questo tratto è anche molto mio. Il personaggio è entrato molto dentro di me. Adesso non so quando mai riuscirò a discostarmi da lui e a lasciarlo andare. Forse l’uscita del film di ieri — il 31 agosto — è l’occasione giusta per fargli fare la sua strada, e lasciarlo”.

Il film è una co-produzione italiana e ucraina. Spiegaci come mai la scelta dell’Ucraina. E, parlando di estero, dicci se ti piacerebbe girare un film a New York City, e se sì, cosa.
“L’Ucraina semplicemente perché era il posto in cui poter far perdere, smarrire, il personaggio, Easy. L’Ucraina è un paese, insieme anche ad altri dell’Ex Unione Sovietica, in cui, se non conosci l’alfabeto cirillico, ti perdi in mezzo alla campagna, e non sai più ritrovare te stesso. Mi serviva un posto in cui potersi ritrovare dopo essersi persi. Ma non solo. L’Ucraina mi garantiva anche quei meravigliosi paesaggi che, seppur ambientati nell’Est, possono ricordare anche il cinema western, certi paesaggi dell’Arizona. Là erano rossi, qua verdi, però c’è comunque una somiglianza, dal punto di vista della vastità, della sconfinatezza degli spazi.
Riguardo la seconda parte della domanda certo, a chi non farebbe piacere girare a New York? Naturalmente bisognerebbe trovare una storia adeguata. Al momento non ne ho. Ma è la città in cui vivo, e questo tipo di città sono affascinanti, piene di spunti, proprio per il fatto che ci vivono milioni di persone diverse che ogni anno arrivano da ogni parte del mondo. Io penso che principalmente non sia tanto la mia voglia di poter girare a New York — ovviamente c’è, e guai se non ci fosse — ma è capire che storia potervi ambientare”.
Andrea conclude dicendoci che al momento non ha un nuovo progetto in cantiere. Si sta dedicando completamente a Easy, vuole accompagnarlo fino alla fine del tour — de force, viene da aggiungere, viste le numerosissime tappe previste. E aggiunge: “Mi guardo intorno, e penso che sia bella anche questa fase. Quella cioè dell’essere interlocutori con se stessi rispetto alle nuove idee”.
Siamo certi che, vista quella brillante alla base di Easy, altre, altrettanto brillanti, seguiranno.