Sarà stato anche il Leone d’oro alla carriera ricevuto nel 2013, a 53 anni, ma è ormai da tempo che il nome di Romeo Castellucci circola con una certa insistenza. Su di lui sono stati scritti articoli, libri e saggi. Il suo teatro è stato osannato e denigrato. Di certo c’è che, fin dagli esordi negli anni ’80, Romeo Castellucci si è imposto come una voce unica e potente nello scenario del teatro contemporaneo.
Era il 1981 quando, a Cesena, insieme a Claudia Castellucci, Chiara e Paolo Guidi, fondò la Socìetas Raffaello Sanzio che metteva in discussione i presupposti della rappresentazione teatrale in favore di un’esperienza performativa che ricercava il paradosso nelle forme e nei contenuti. Il gruppo si dichiarava iconoclasta e riuscì a guadagnarsi una denuncia per vilipendio della religione. Negli anni il lavoro di Castellucci è cambiato e per certi versi si è andato avvicinando al teatro, ma non si è ammorbidito: i suoi spettacoli scardinano il punto di vista dello spettatore e lo portano a un contatto quasi fisico con l’azione teatrale.
Lo incontro nell’albergo del Financial District dove è alloggiato mentre prepara le due date di sabato 1 e domenica 2 ottobre, quando Julius Caesar. Spared Parts andrà in scena in un allestimento site specific, tra le colonne della Federal Hall, palazzo istituzionale storico di New York che ha visto nascere la democrazia e la finanza americane. Lo spettacolo arriva in città all’interno del Crossing the Line Festival, organizzato da French Institute Alliance Française, a conferma di quel rapporto con l’estero che è stato fondamentale per la sua carriera e di cui Castellucci mi dice in questa intervista.
Lo spettacolo è una versione condensata del Giulio Cesare con cui Castellucci vinse il premio il Premio Ubu come migliore spettacolo del 1997. Una performance di 45 minuti riduce l’opera di Shakespeare a tre scene, frammenti, pezzi di una vicenda e di un testo, forse tra i più noti del teatro occidentale, che Castellucci riarrangia creando potenti scontri cognitivi.
Presenti qui a New York il tuo Giulio Cesare. C’è ancora qualcosa di nuovo da dire su questo testo?
“Su questo pezzo in particolare c’è sempre molto da dire. È un pezzo che tratta del potere, della parola circolare, della retorica. Ma parla anche di essere umani, soprattutto nella seconda parte che è straordinaria e che in qualche modo entra in contraddizione con la prima parte, che è più politica. Come spesso capita con Shakespeare, è ancora molto attuale. Sono testi infinitamente interpretabili: è questa la forza di Shakespeare. Ed è anche un generatore di mitologia. Credo che la cosa più interessante sia mostrare un lato inaspettato del testo e cercare di presentarlo sotto un’angolazione nuova, un nuovo punto di vista”.
E come lo fai in questo spettacolo?
“Leggendo in controluce il testo di Shakespeare e avendo prima letto la storia romana, si capisce che Giulio Cesare non è un uomo di potere. È un uomo che cade in un gioco di potere ma non è un potente. Shakespeare fin dalle prime battute lo presenta come un agnello sacrificale”.
Ti interessa il tema del potere? Lo hai esplorato in passato?
“Non in modo così diretto. Qui c’è un lavoro sull’operazione della parola che è una parola armata, una parola retorica. I destini di Roma e della storia dipendevano dalla bellezza del discorso. Il discorso di Marco Antonio era più bello e commovente di quello di Bruto. E Marco Antonio è diventato un triumviro perché ha fatto un bel discorso. Mentre Bruto è dovuto scappare, si è suicidato perché ha sbagliato un discorso. È il potere della parola e anche oggi non è cambiato nulla. Ne abbiamo avuto un ultimo esempio l’altro giorno col dibattito presidenziale…”.
C’è la parola e poi c’è il corpo. Nel tuo teatro il rapporto tra corpo e parola mi sembra molto organico. C’è un pensiero dietro questa dinamica?
“Più che un pensiero c’è un sondare, un cercare di penetrare il parlare, che non è un fatto scontato ma un gesto gravido di conseguenze. Parlare è problematico. A partire dalla tragedia, fondamento del teatro occidentale, c’è una idiosincrasia dell’uomo rispetto al linguaggio. L’uomo vuole esprimere delle cose che il linguaggio non è in grado di dire. Questa mancanza di esattezze genera delle catastrofi. Per questo la parola nella tragedia genera silenzi”.
E il corpo può riempire quella mancanza?
“Il corpo subisce il linguaggio, ne è invaso, ma è, allo stesso tempo, elemento di verità. Il linguaggio è un elemento invece molto legato al potere. Il corpo è l’elemento più fragile e rappresenta un’aderenza all’esistenza. Il linguaggio è sempre stratagemma. Poi il corpo si prende anche qualche rivincita. Per esempio in questo allestimento c’è un attore che parla e, per farlo, si inserisce nella narice un endoscopio che va giù attraverso la gola e si affaccia sulle corde vocali che palpitano. Lo spettatore vede in tempo reale le corde che, muovendosi, generano il linguaggio. Come dire che anche il linguaggio ha un fondamento carnale, dei presupposti biologici e meccanici che sono uguali per tutti”.
Storia antica e mito tornano spesso nei tuoi lavori. Pensi che quell’estetica ed etica siano ancora rilevanti oggi?
“La mitologia non è qualcosa di legato al passato, si generano miti ogni giorno. Se vai in strada puoi riconoscere certe mitologie che resistono. La mitologia è un atteggiamento rispetto alla vita, non è soltanto qualcosa di accademico, polveroso: il contrario. Chi è in grado di generare mitologie, ma anche di leggerle, ha uno strumento in più per interpretare la realtà. La mitologia fa parte della nostra natura non è un’invenzione, attraverso la mitologia si genera il pensiero razionale. E poi l’uomo ha bisogno di narrazione e la mitologia è narrazione”.
È la prima volta che metti in scena uno spettacolo a New York…
“Nella city sì, ma sono stato tutt’intorno”.
Cosa ti aspetti dal pubblico newyorchese?
“Abbiamo lavorato spesso in America e non credo che New York sia molto differente. Ci sono delle sfumature, certo, ma in generale penso che il pubblico americano sia assolutamente pronto, forse anche di più degli Europei che hanno più convinzioni legate alla Storia che spesso diventa un peso, una zavorra. Qui mi sembra ci sia una un concetto di storia diverso e una maggiore apertura mentale”.
Ritieni che nel tuo modo di fare teatro ci sia qualcosa di italiano o italico?
“Senz’altro. Sono un autore italiano perché sono nato in Italia e i miei riferimenti sono quelli di tutti i bambini italiani della mia epoca. Come tutti gli italiani, ho una formazione di stampo cattolico, una peculiarità attraverso la quale la storia dell’arte entra in modo prepotente. Al di là della dottrina, che non mi interessa, la cultura cattolica è potente e potente è il legame con la storia dell’arte: Caravaggio non sarebbe mai esistito al di fuori di questa cultura”.
Un condizionamento estetico, quindi, più che etico…
“Assolutamente sì. Non c’è nulla di dottrinale o fideistico. La chiesa Cattolica, nel bene e nel male, ha avuto un enorme impatto sul mondo della cultura e dell’arte. Da bambino, vai nelle chiese e vedi questi quadri, dappertutto, con scene di nudo. I primi corpi nudi li ho visti in chiesa. È una cultura molto sensuale quella cattolica, molto legata al peccato. Molto più che non la cultura protestante, luterana o calvinista che è stata lavata con il cloro. La cultura cattolica rimane attaccata a una certa idea di corpo e di peccato”.
Il tuo teatro riesce comunque da sempre a uscire dai confini italiani, cosa non comune per il teatro nostrano. Secondo te cos’è che rende il tuo teatro più esportabile?
“Io in realtà non faccio niente per promuovere il mio lavoro. È il lavoro che genera lavoro. Non sono certo di come funzionino questi meccanismi, però so che lavoro quasi solo all’estero, pochissimo in Italia. Ma non è una cosa che ho cercato e, anzi. mi dispiace. Uso la parola italiana e nei miei testi ci sono anche riferimenti alla cultura italiana: credo che mi si riconosca come italiano, eppure mi chiamano di più dall’estero…”.
Quando vieni a New York vai a teatro? Cosa ti interessa vedere?
“Ho sempre poco tempo, però qui mi sembra che il teatro sia piuttosto conservatore. Ci sono qui a New York dei gruppi molto interessanti, che stimo molto, come il Nature Theater of Oklahoma, Richard Maxwell, poi gli storici, The Wooster Group e Richard Forman. Ma sono poche cose in proporzione alla dimensione. Per il resto mi sembra che si rischi poco, per una falsa e poco furba preoccupazione di soddisfare il pubblico, ma è un falso problema e una morte lentissima…”.
C’è qualcuno nel teatro americano con cui ti piacerebbe lavorare?
“Il prossimo progetto lo faccio con Willem Dafoe che ha creato The Wooster Group”.
Cosa farete?
“Un testo tratto dalla novella di Nathaniel Hawthorne, The Minister’s Black Veil. La prima mondiale sarà ad Anversa a dicembre. Poi verremo anche a New York”.
Andando indietro nel tempo, ci racconti un po’ dell’esperienza della Raffaello Sanzio e di cosa ne è stato o ne sarà?
È un progetto nato ormai più di trent’anni fa da un gruppo di amici, tutti legati all’arte visiva, nasce in un contesto non teatrale e c’era, anzi, un atteggiamento molto polemico nei confronti del teatro: non ci interessava, lo vedevamo come una cosa morta, noiosa. La nostra esperienza nasce negli spazi delle gallerie dei musei come performing art che poi si è andata trasformando sempre di più in teatro e col tempo siamo diventati una compagnia teatrale. Ma siamo partiti da un percorso diverso: non è vero che per fare teatro si debba passare dalle accademie eccetera. Oggi non lavoriamo più insieme, ma io, Chiara e Claudia rimaniamo nella stessa casa. Ognuno fa le sue cose e segue il proprio percorso. Abbiamo tre progetti artistici distinti. Come compagnia non esiste più, ma abbiamo in comune spazio, organizzazione ed economia, che è molto importante a livello simbolico.
Si è detto spesso che il tuo teatro è mosso dall’ideale di rendere il linguaggio teatrale comprensibile. Che significa? Ce n’è bisogno? E come si fa?
“Credo che un spettacolo non debba essere fatto per gli amici o per gli specialisti di teatro: non è un club. Puoi essere sofisticato quanto vuoi, ma devi essere in grado di toccare il maggior numero di persone possibile. Se non è comprensibile è debole. Però bisogna definire comprensibile. Io non faccio cose pedagogiche, non sono Bertolt Brecht che vuole educare. Ma è tuttavia qualcosa che tutti, ciascuno a suo modo, possono comprendere, interpretare.
La comprensione avviene più di testa o più di pancia?
“Prima viene il corpo e poi la testa: il primo impatto deve essere emozionale, solo così puoi toccare lo spettatore. Il teatro è anche arte del contatto, di prossimità: il palco, gli attori, l’azione. Senza contatto non funziona, resta inerte, lettera morta”.

Che ti sembra della situazione del teatro in Italia, da un punto di vista sia dei teatri che del pubblico?
“Il teatro in Italia da ormai moltissimi anni è legato ai teatri stabili che sono centri di gestione e produzione, ma non funzionano molto bene. E non lo dico perché non mi chiamano, perché quello è legittimo. È che è un sistema molto chiuso perché si basa sullo scambio: prendo il tuo spettacolo se tu prendi il mio. Gli spettacoli così sono garantiti e la necessità di avere idee straordinarie non c’è, si abbassa la qualità ed è sempre la stessa minestra”.
Secondo te il pubblico se ne accorge?
“Secondo me sì, infatti ci sono problemi ad attrarre il pubblico e si cercano formule sicure: un testo riconosciuto (in una stagione ci sono almeno 3 o 4 Shakespeare, un paio di Pirandelli…), regie non troppo disturbanti e soprattuto, in ogni produzione, uno o due attori che vengono dalla televisione”.
Da un punto di vista istituzionale ci sono forme di supporto?
“Ci sono segnali positivi, ma vent’anni di Berlusconi hanno devastato il paese dal punto di vista culturale. Ora si recupera ma è un recupero lentissimo perché bisogna rigenerare dei tessuti che non ci sono più”.
Forme di supporto per portare il teatro all’estero?
“L’Istituto italiano di cultura non ha una lira… A volte c’è una quota sui viaggi, ma noi per esempio la esauriamo subito. Noi prendiamo il finanziamento pubblico, che è importante, ma nel nostro caso è a malapena sufficiente per mantenere in piedi la struttura, ma non i lavori”.
Qual è un paese che invece consideri un modello positivo?
“Nonostante tutto la Francia, dove il teatro è importantissimo. Hanno fame di cultura e i teatri sono sempre pieni”.
Quindi la spinta viene dal pubblico?
“Sì, ma anche il fatto che sui giornali, per esempio, trovi pagine e pagine dedicate al teatro. In Italia questa cosa non c’è più, il teatro è scomparso dai giornali e non è più nel dibattito culturale del paese. Mentre in altri paesi è ancora fondamentale. E lo capisci anche dal numero incredibile di teatri che ci sono a Parigi: fa impallidire New York”.
New York. Che ne pensi? Come la vivi?
“È una città inevitabile. È molto presente in tutti noi, per molti motivi. La cosa che mi piace di più sono le persone, nella metropolitana potrei stare ore a guardare le persone. La varietà di persone è la cosa che rende unica New York. Poi io sono molto legato alla letteratura americana…”.
Qualcosa in particolare?
“Sono un devoto di David Foster Wallace che, purtroppo, ci ha fregato… Rimane uno dei miei punti di riferimento, non solo in letteratura ma anche in filosofia. Era uno dei pochi scrittori, anzi, una delle poche persone al mondo, in grado di fornire uno sguardo umano e non cinico su tutto quello che ci circonda. Prima ancora che uno scrittore e artista straordinario, era una persona straordinaria”.