Paolo Genovese e gli altri scrittori di Perfetti sconosciuti sono tornati dalla trasferta al Tribeca Film Festival 2016 con il premio per la miglior sceneggiatura ottenuto nella sezione del concorso internazionale. Un riconoscimento che, arrivato pochi giorni dopo il David di Donatello come miglior film dell’anno, conferma non soltanto le qualità del lungometraggio ma soprattutto il fatto che sai un prodotto esportabile in mercati stranieri, magari anche in uno competitivo come quello statunitense.
Il premio poi assume un valore simbolicamente ancora più forte se consideriamo che quest’anno il Tribeca Film Festival ha puntato in maniera molto più consistente su un cartellone di titoli accomunati dalla volontà di mettere nuovamente storie e personaggi in primo piano, magari anche rispetto all’eleganza della messa in scena. Una scelta senza dubbio vincente, visto che la qualità media dei lavori selezionati è stata di gran lunga superiore a quella delle precedenti quattro edizioni.
Il cinema di genere americano possiede ancora un’anima forte, anche senza il bisogno di effetti speciali o scene d’azione iperspettacolari. L’hanno confermato a questa kermesse opere come il notevole zombie-movie Here Alone o il noir on the road Detour. Il primo è il potentissimo ritratto di una donna che, dopo essere scampata all’apocalisse e al virus che ha messo fine o quasi all’umanità, sceglie l’isolamento nella foresta per scampare alla fame cannibale dei non-morti ma anche al pericolo che comporta lo sperare ancora in una possibile vita civile. Il secondo invece è il più classico dei noir nell’impostazione che, sviluppandosi, poi diventa un omaggio/riproposizione degli stilemi di alcuni maestri come David Lynch o Alfred Hitchcock. L’approccio estetico è diametralmente opposto: l’horror di Rod Blackhurst sceglie la via della rarefazione per accentuare il senso di isolamento della bravissima protagonista Lucy Walters (vista in Shame), il film di Christopher Smith invece sceglie di giocare con i ritmi e le fascinazioni estetiche che gli scenari naturali del deserto americano gli offrono. Due lungometraggi diversi accomunati però dalla solidità e coerenza con cui scrittura e regia si intersecano.
Dentro il sottogenere del dramma sportivo si sono inseriti invece due film “gemelli” come The Phenom e Wolves (gli sport in questione sono rispettivamente baseball e basket): al centro della vicenda di entrambi una giovane promessa che deve fare i conti con una situazione familiare disastrata e la difficoltà di scegliere cosa sia meglio per un futuro che potrebbe rivelarsi prestigioso e remunerativo soltanto una volta entrati nel mondo dello sport professionistico. Molto più riuscito il primo perché sceglie di non indulgere nel melodramma , me mette in scena il tormento interiore dell’uomo che deve ancora formarsi, con una stringatezza che alla fine convince.
Anche la commedia dolceamara ha avuto il suo spazio al Tribeca 2016 con alcuni titoli di sicuro interesse. The Family Fang di e con Jason Bateman (già passato a Toronto 2015) merita segnalazione per l’atmosfera amarissima e un discorso non conciliatorio sull’istituzione della famiglia americana che il comico/autore sembra portare avanti con feroce precisione. Anche Elvis & Nixon di Liza Johnson sotto la superficie della commedia di costume e di situazione cela un animo più malinconico, mettendo in scena due anime tormentate e anacronistiche – anche per il 1970, anno in cui film si svolge – come “Tricky Dicky” e “Elvis the Pelvis”. Se poi a interpretarli sono due istrioni consumati quali Kevin Spacey e Michael Shannon, ecco che il risultato non può che essere di livello.
Sceglie la via della compostezza invece il solitamente fragoroso Eddie Murphy in Mr. Church, melodramma di Bruce Beresford sullo scorrere del tempo e soprattutto degli affetti. Sorprendente l’efficacia del comico in un ruolo per lui decisamente inusuale.
Tra le commedie più piccole e indipendenti viste quest’anno al festival merita segnalazione soprattutto Folk Hero & Funny Guy, storia di amicizia, gelosia, confusione sentimentale e amore per la musica. Sicuramente più compatto il film di Jeff Grace rispetto al pur simpatico Dean del comico Demetri Martin, che pure può vantare un grande Kevin Kline.
Chiudiamo questa breve rassegna dei migliori titoli passati al Tribeca Film Festival 2016 con quella che pensiamo sia stata la sorpresa più affascinante, e cioè Poor Boy di Robert Scott Wildes. Nell’America rurale degli spazi sconfinati, dove povertà e desolazione regnano, due fratelli ai margini della società cercano di vivere ogni giorno con vitalità e coraggio, barcamenandosi tra microcriminalità, ingenuità e isolamento esistenziale. La grana estetica del film è grossa, spesso addirittura grossolana, ma forse proprio per questo capace di ipnotizzare lo spettatore. Il lungometraggio è fresco, disperato, corrosivo. Lou Taylor Pucci e Dov Tiefenbach sono i due fratelli protagonisti magnificamente assemblati di quest’opera spuria e incredibilmente vitale, sfrontata, tristissima. Non il prodotto più equilibrato del festival ma senza dubbio quello più potente, che arriva al cuore del pubblico e vi rimane ben oltre il tempo della semplice proiezione in sala.
Per la lista di tutti i vincitori del Tribeca 2016 rimandiamo al sito Internet del Festival.