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September 2, 2015
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James Dean, il mito consegnato alla leggenda

Chiara BarbobyChiara Barbo
James Dean, il mito consegnato alla leggenda

James Dean (Wikimedia/Akristóf96)

Time: 5 mins read

Nei brevissimi e intensi anni della sua carriera James Dean ha fatto in tempo a diventare un mito. Un mito perché è morto giovane, sottolineano in molti. Forse. Sono passati sessant’anni dalla sua morte, era un altro mondo, un’altra Hollywood. Nell’ingombrante solco di Marlon Brando, Dean era un attore dal talento complesso e inaspettato, icona del giovane tormentato e ribelle, assurto a breve a sex simbol, nell’immaginario maschile e femminile. Ma forse, e questo è un pensiero costante, non aveva fatto in tempo a diventare l’attore, e la persona, che avrebbe voluto essere. Ventiquattro anni sono troppo pochi, o almeno questo è quello che ho pensato rivedendo i suoi film, leggendo e rileggendo articoli, saggi, e riguardando le tante fotografie che lo hanno impresso per sempre nei nostri occhi.

Molte di queste fotografie, probabilmente le più belle, sono state scattate a New York da Dennis Stock tra il gennaio e il febbraio del 1955, e pubblicate in parte da LIFE magazine il mese successivo. Ci vuole sicuramente un grande fotografo per esprimere con uno scatto l’essenza di James Dean e al tempo stesso l’essenza della città. Da newyorchese consumato e abituato, per quotidianità e professione, ad osservare le strade e la gente di New York, Stock aveva capito subito che James Dean era New York. Non tanto per questioni biografiche, ma per l’essenza della sua personalità.

 

Dopo qualche inizio stentato a Los Angeles, Dean infatti aveva scelto di venire a New York per diventare un attore, non solo un bravo attore, ma il più grande di tutti. E, nelle sue stesse parole, New York era l’unico posto dove questo poteva accadere. Viene ammesso all’Actors Studio, viene scelto da Elia Kazan per il ruolo di Cal in East of Eden (La valle dell’Eden), poi da Nick Ray per il (reso da lui) memorabile ruolo di protagonista di Rebel Without a Cause (Gioventù bruciata) poi da George Stevens per il ruolo di Jett Rink in Giant (Il gigante). Tutto in meno di tre anni. Non è che le occasioni gli siano arrivate dal nulla. Biografie e ricordi ci raccontano di una gavetta, naturalmente: recite scolastiche in Indiana, dov’era nato e cresciuto, minuscoli ruoli in spot pubblicitari quand’era ancora a Los Angeles, particine irrilevanti al cinema e in televisione, fino alla fondamentale interpretazione, al Royale Theater di New York nel 1954, nell’adattamento teatrale de L’immoraliste (L’immoralista) di André Gide.

Chiacchiere e verità varie sulla sua vita privata, e su presunte o reali intercessioni fatte per lui da uomini più o meno influenti, si sprecano, e per anni la pruderie hollywoodiana ha fatto sì che non si parlasse più di tanto della sua bisessualità, e tanto meno dei suoi presunti mecenati. James Dean aveva un talento e una personalità fuori dal comune, era sicuramente un ragazzo in gamba (non esattamente mediocre, come certi “amici” lo ricordano…), era gentile, era smanioso di imparare, di migliorare, di leggere tutto quello che andava letto, ascoltare tutto quello che andava ascoltato, sapere tutto quello che c’era da sapere. Ognuno sa, per le proprie scelte, qual’è il prezzo da pagare, immagino che anche lui sapesse perfettamente quale fosse il suo.

 

Sono passati sessant’anni dal quel 30 settembre in cui James Dean perse la vita in un incidente stradale a Cholame, in California. In giro per il mondo si perpetua il ricordo con omaggi, proiezioni, pubblicazioni, eventi più o meno improbabili come la James Dean’s Last Drive – una corsa automobilistica commemorativa che ripercorre l’ultimo tragitto in macchina dell’attore a cui partecipano fan di tutto il mondo. Non penso perché ci sia veramente molto altro da scrivere su di lui – in questi anni infatti praticamente tutto è stato scritto, sondato, rappresentato – ma forse perché sono ancora in molti, siamo in molti, ad avere qualche pensiero personale su quello che quest’attore è stato in quegli attimi di storia del cinema che è riuscito ad attraversare, lasciando un segno così indelebile nella storia della recitazione americana, ma in generale nell’iconografia del cinema degli anni Cinquanta.

Molti registi e attori si sono confrontati con il mito di James Dean, con risultati alterni, ciascuno con il suo personale sguardo e il suo pezzetto di mito da raccontare.

Nel 1982 Robert Altman ha diretto Jimmy Dean, Jimmy Dean, una sorta di tragedia greca in forma di soap opera che racconta la sua influenza come icona culturale, e nel 1957 aveva co-diretto con George W. George il documentario The James Dean Story; nel 2001 Mike Rydell dirige il TV movie James Dean (James Dean – La storia vera), patinato e poco interessante, ma con un James Franco perfetto nei panni di Dean, un ruolo praticamente impossibile a meno che, come in questo caso, un bravo attore ne colga l’essenza e la faccia sua; nel 2012 è la volta di Joshua Tree, 1951: A Portrait of James Dean di Matthew Mishory con James Dean interpretato da Dean Preston, un film fiacco sul Jim Dean prima della fama e prima di New York; September 30, 1955 di James Bridges (1957 ) e con Richard Thomas nel ruolo di Dean è una commemorazione della sua morte più che della sua vita; Tom Dolby sta lavorando da tempo alle ricerche per un film sul rapporto tra James Dean e Nicholas Ray in Rebel Without a Cause (di cui quest’anno ricorre il sessantesimo anniversario); infine LIFE, interessante biopic di Anton Corbijn su Dennis Stock e il suo rapporto con James Dean proprio in occasione di quel famoso photoshooting a New York all’inizio del 1955, con Dane DeHaan nel ruolo di Dean e Robert Pattison in quello di Stock, dove DeHaan (pur somigliante) tenta disperatamente di imitare la voce e la gestualità di Dean. Il film esce in questi giorni nelle sale di tutta Europa, in occasione dell’anniversario della morte dell’attore, mentre negli Stati Uniti, curiosamente, uscirà solo a dicembre. Ma se film, libri, informazioni e aneddoti sulla carriera e la vita privata di James Dean continuano ad aggiungersi negli anni, qualche riga sul suo rapporto con New York può ricordare di lui quella parte più schiva e autentica, nella città dove camminava per strada senza essere riconosciuto, dove era un attore e non una star.

 

Sebbene i tre film da lui interpretati fossero girati a Hollywood, era a New York che James Dean tornava appena poteva, nel suo piccolo monolocale al quinto piano al numero 19 della West 68th Street, era questa la città che gli era più affine. Una città, all’epoca, dove vivevano attori squattrinati, ma dove si scriveva e metteva in scena il teatro migliore del mondo, una città grigia e fumosa rispetto alla solare Los Angeles, ma una città vera, vitale e dolente, che viveva di quella verità che Dean ha sempre cercato nei suoi personaggi, e nella sua stessa, combattuta vita.

L’iconografia di James Dean è indissolubilmente legata a New York. Times Square sotto la pioggia, l’interno di un bar, il camerino a Broadway, i marciapiedi di Manhattan, le lezioni di danza presso lo studio di Katherine Dunham, il suo appartamento nell’Upper West Side: un letto, una scrivania, molti libri (e il bagno nel ballatoio, in condivisione con gli altri inquilini del palazzo, anche se questo nelle immagini di Stock non si vede). In queste fotografie si intuisce chi James Dean sarebbe potuto e sarebbe voluto diventare. Viene fermato dalla macchina fotografica di Dennis Stock in quell’attimo della vita in cui stava nascendo una stella, nella città che lo aveva maggiormente influenzato professionalmente e che lo aveva in qualche modo modellato: introspettivo, pensoso, complicato. Ne è l’essenza il bellissimo bianco e nero che lo ritrae mentre cammina nella pioggia, bavero alzato e sigaretta in bocca, con alle spalle le insegne luminose di Times Square. Che questo fosse lui o il personaggio che avrebbe voluto (o potuto) diventare poco importa. È questo che Stock aveva voluto catturare con le sue fotografie che (purtroppo), solo qualche mese dopo, hanno contribuito a consegnare James Dean alla leggenda.

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Chiara Barbo

Chiara Barbo

Scrivere di cinema o scrivere il cinema? Possibilmente tutti e due. Dalla critica cinematografica alla sceneggiatura passando per la produzione, al di qua e al di là dell'oceano, collaboro con La VOCE di New York e con Vivilcinema, con la Pilgrim Film e con Plan 9 Projects. E anche con altri. Ma per lo più penso, immagino, ricerco, scrivo, organizzo in modalità freelance. Insieme a tanti altri, faccio parte della giuria del David di Donatello. New York è stata una scelta. New York è intensa, vitale, profonda e leggera, pacchiana e intellettuale, libera, creativa, è difficile, è bellissima, ed è la città più cinematografica del mondo.

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