Cannes, domenica 17 maggio, fine della prima settimana. Tutto come sempre sulla Croisette: code interminabili e soprattutto imprevedibili che costringono gli accreditati a liquefarsi sotto il sole cocente della Costa Azzurra e a rivedere continuamente i loro piani di lavoro; parata di star che sfoggiano, senza mezze misure, look improbabili (Matthew McConaughey) o impeccabili (Emma Stone); il pulsare continuo del Marché du film, nel ventre del Palais du Cinema, dove si svolgono frenetiche contrattazioni che pompano soldi, come linfa vitale, nell’organismo dell’industria cinematografica mondiale.
Nonostante il ridicolo appello del direttore Thierry Frémaux, i selfie dilagano senza ritegno, e con essi anche i venditori abusivi di “aste da selfie”, i più pregiati anche con piccolo telecomando, che rende la foto con il divo acessibile anche ai comuni mortali: e confesso di non aver resistito alla tentazione di comprarne una.
In mezzo a tanto fumo, però, qui a Cannes c’è sempre un succulento arrosto: i film. Vediamo allora promossi e bocciati di questi primi giorni di competizione.
Concorso ufficiale – I promossi
Mi sono già espresso su Tale of Tales di Matteo Garrone, per noi promosso seppur con meno entusiasmo di quanto ci saremmo attesi.
Entusiasmo che invece ha suscitato, e non solo in chi scrive, Mia Madre di Nanni Moretti, il settimo passaggio del regista romano nel concorso della kermesse francese. Per conoscere nel dettaglio i grandi pregi dell’ultima fatica di Moretti vi rimandiamo alla recensione che gli abbiamo dedicato e ci limitiamo a sottolineare qui l’accoglienza davvero molto positiva della stampa internazionale e degli addetti ai lavori alle varie proiezioni e la grande emozione dello stesso Moretti all’anteprima del 16 Maggio, visibilmente commosso davanti all’ovazione del Grand Theatre Lumiere.
Promosso a pieni voti anche The Lobster, del greco Yorgos Lanthimos, surreale distopia sospesa tra Bunuel e Orwell che prende a cannonate ogni forma di estremismo etico e sociale rispetto all’amore e alla coppia. Con un Colin Farell in splendida forma, Lanthimos racconta di un futuro immaginario nemmeno troppo lontano in cui è proibito essere single. Chi cade in questa condizione, viene messo in “centri di riabilitazione” nei quali è costretto a trovare l’anima gemella. Se non ci riesce, viene trasformato in un animale. Attenzione, però: nelle foreste vivono i “ribelli solitari", che invece proibiscono qualsiasi forma di accoppiamento e sono, forse, ancora più ottusi della società contro cui lottano. Humour sottilissimo e tagliente, straniamento totale e un rigore formale assoluto fanno di questo film uno dei maggiori candidati alla vittoria finale. Peccato solo per una punta di eccessivo compiacimento che a tratti produce una vaga irritazione, un senso di breve ma intenso fastidio.
Infine, ecco il primo della classe (per ora): Son of Saul, di László Nemes, il più originale film sull’olocausto degli ultimi anni, incentrato sui Sonderkommando, squadre di prigionieri utilizzate dai nazisti per lo “smaltimento” dei corpi degli ebrei uccisi nei lager e diventati, nel tempo, dei robot insensibili agli orrori. Almeno fino a quando uno di loro non si trova a “smaltire” il cadavere di suo figlio.
Girato in quattro terzi, con un fotogramma, quindi, “piccolo” in cui entrano, di volta in volta, solo il viso, la schiena, o altri dettagli del bravissimo Géza Röhrig (il Saul del titolo), gli orrori rimangono fuori campo ma forse per questo ancora più scolpiti nel nostro sguardo, quando si riflettono sul volto trasognato del protagonista. Intanto, sullo sfondo, decine di treni e di camion carichi di prigionieri, giungono ad Auschwitz. Siamo solo all’inizio, ma per ora questo film è la nostra Palma d’oro.
Concorso ufficiale – I bocciati
Il primo a finire dietro alla lavagna è a sorpresa Gus Van Sant, che ci ha regalato il peggior film della sua grande carriera, The Sea of Trees, che riesce nell’impresa di fermare la cavalcata trionfale di Matthew McConaughey nell’olimpo di Hollywood. Il protagonista di Interstellar, stavolta, si è buttato nel progetto sbagliato, un parabola melensa, retorica e contraddittoria, ambientata nella “selva dei suicidi”, non quella dantesca, ma quella giapponese. Sotto il monte Fuji accorrono da tutto il mondo persone che vogliono farla finita. McConaughey è un aspirante suicida schiacciato dal peso di un dramma familiare che dentro la selva troverà, in ordine sparso, i suoi fantasmi, i suoi rimorsi, Ken Watanabe (in una parte francamente indecifrabile) e soprattutto una confusione assoluta di stili, registri e battute. Un passaggio a vuoto clamoroso, salutato spensieratamente con bordate di fischi alla proiezione stampa.
Esce dai candidati alla palma anche la bella Maïwenn, quattro anni fa insignita dalla giuria di Cannes con il premio speciale per Polisse e ora artefice di Mon Roi, un dramma di coppia di una banalità raggelante, con Vincent Cassel nei panni di un Don Giovanni un po’ cialtrone e un po’ maniaco, e Emmanuelle Biercot, che dopo aver aperto il festival con il suo bel La Tete Haute, naufraga insieme al cast intero in quest’opera a tratti anche piuttosto noiosa. Il tema è quello, attuale perché universale, del ricatto emotivo. Lo svolgimento, però, è privo di qualsiasi idea anche solo vagamente originale e interessante.
L’altro concorso – Un certain Regard
Un Certain Regard, il concorso parallelo, che di solito regala grandi perle, è partito un po’ in sordina.
Discreto il film d’apertura An, divertente il thriller Maryland, di Alice Winocour, in cui la ricca Jessie (una bellissima Diane Kruger) e il reduce Vincent (Matthias Schoenaerts), ora suo body guard, devono convivere forzatamente nella villa di lei, assediata da criminali implicati nei giri loschi del marito, un trafficante d’armi libanese. Il ritmo tiene, ironia e suspance si alternano in modo piacevole, ma c’è qualcosa che non quadra nella sagomatura dei personaggi, a volte superficiali, a volte contraddittori, e nella plausibilità di alcune situazioni.
Non memorabile, insomma, ma gradevole, stessa formula che si potrebbe usare anche per l’indiano Fourth Direction, esordio di Gurvinder Singh, e l’islandese Rams, di Grimur Hakonarson. Il primo è un esordio e racconta l’insurrezione del Punjab negli anni Ottanta, con un rigore formale impeccabile e un taglio documentaristico chirurgico. Un film che intavola un discorso di per sé avvincente, ma lo fa con uno stile gelido e spoglio che spesso risulta decisamente respingente.
Gelido, letteralmente, è il termine appropriato per definire anche Rams, che racconta la bella storia di due fratelli allevatori di capre che vivono nelle Highlands islandesi e non si parlano da quarant’anni. La loro piccola storia, fatta di amore, contrasti e perdono, forse non rimarrà nella storia del festival di Cannes, ma alla fine commuove e tocca, e non è un merito da poco per una storia di anziani pastori, capre e ghiacci sempiterni.
Destinato, invece, a ritagliarsi uno spazio importante nel cinema d’autore dei prossimi anni ci sembra Dalibor Matanic, il regista di Zvizdav, film che racconta in tre storie d’amore diverse, ambientate rispettivamente nel 1991, nel 2001 e nel 2011, la rivalità etnica tra serbi e croati di due paesini adiacenti. Straordinario il primo, tragico, episodio, meno riusciti gli altri due; però Matanic, classe 1975, croato con alle spalle già una manciata di lungometraggi, affonda il suo sguardo nelle ferite più sanguinose del più terribile fra i conflitti degli ultimi anni, scandaglia le profondità di odii atavici quanto immotivati, e lo fa con una freschezza stilistica notevole. Alterna i primissimi piani dei suoi due attori, Tihana Lazovic e Goran Markovic – così stretti da farci vedere anche le più piccole imperfezioni della loro pelle, come se volesse mostrarci, attraverso la carne, le loro radici profonde – a campi larghi che “aprono” lo sguardo sulla desolazione di una terra ferita e abbandonata. Non tutto regge, ma il regista croato ci sembra aver raggiunto una maturità stilistica che prelude al grande salto e, probabilmente, ad un premio da parte della giuria presieduta da Isabella Rossellini.