Esuli, rifugiati o emigranti? Quando si parla dell'emigrazione intellettuale italiana negli Stati Uniti alla fine degli anni '30, e soprattutto di quella ebraica, i termini si confondono spesso. A cercar di chiarire la questione da un punto di vista storico, però , e' stata nei giorni scorsi Alessandra Gissi, ricercatrice di Storia Contemporanea all'Università di Napoli ''L'Orientale”. Durante un'interessante conferenza al Calandra Italian American Institute della CUNY, la studiosa ha spiegato perché, a suo giudizio, i professori arrivati per motivi politici o dopo l'emanazione delle leggi razziali devono essere considerati parte di una ben piu' vasta corrente migratoria.
La Voce di New York le ha fatto alcune domande.
Lei dice che gli intellettuali ebrei furono emigranti e non esuli. Quali sono le differenze, da un punto di vista storico, tra i due gruppi?
Gli aspetti particolarmente drammatici della loro vicenda, soprattutto il feroce antisemitismo, sembrano aver provocato il radicarsi dell’uso di termini come esiliati o rifugiati. Due termini che dicono molto ma non tutto, e che vengono adoperati, talvolta, in maniera così casuale e interscambiabile da rendere necessaria qualche riflessione. Non è tanto che mi interessi una definizione rispetto ad un’altra, quel che mi interessa è l’analisi dei percorsi di questa mobilità. Come l’emigrazione non sia stata esclusivamente la risposta ad un’eccezionale povertà o a condizioni di sovrappopolamento e che, soprattutto, non sia stata dettata unicamente dai meccanismi di push/pull del mercato internazionale è ormai fuori di dubbio. La decisione di emigrare è stata anche una scelta personale, un progetto individuale o familiare elaborato da un’articolata gamma di protagonisti, ispirata a logiche e strategie – non solo economiche – socialmente differenziate. Ebbene, l’intellectual wave che raggiunse le coste statunitensi tra le due guerre mondiali, sospinta dalla terribile temperie europea, non rappresentò un’eccezione. Alcuni esempi dimostrano chiaramente che le persecuzioni politiche e razziali si intrecciarono spesso con motivazioni di altro tipo. E le categorie interpretative delle migrazioni risultano particolarmente utili per analizzare il fenomeno.

Alessandra Gissi
Perche' ci sono state delle remore a riconoscere gli intellettuali ebrei come migranti?
Intanto bisogna specificare che non tutti erano ebrei, c’è stata una componente di antifascisti che hanno ricevuto maggiore attenzione ma dopo i provvedimenti antiebraici del 1938 certamente la maggioranza era composta da ebrei.
Non c’è dubbio che le cifre di questa ondata migratoria appaiano minori se paragonate a quelle della grande emigrazione che aveva drenato la popolazione di molte regioni italiane tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Per questa ragione la storiografia italiana può essere stata indotta a considerare il fenomeno, se non ininfluente, certo difficilmente leggibile con le categorie interpretative delle migrazioni. Al tempo stesso, lo stereotipo dell’emigrante – cafone senza fortune e senza progetto – così testardamente coltivato prima che venissero elaborate interpretazioni più avvertite, ha reso lungamente improponibile l’idea che si potesse parlare di emigrazione anche per gli intellettuali espatriati negli anni tra le due guerre mondiali. I «professori» apparivano inconciliabili con l’idea (sbagliata) di miseria e subordinazione legata alla Grande Emigrazione. Ne è derivata una negazione pregiudiziale delle somiglianze in virtù delle macroscopiche differenze, ha trionfato una macroanalisi che ha perso l’occasione di una micro-osservazione dei percorsi individuali.
Tra gli ebrei che scelsero l'America ci furono grandi nomi e giovani sconosciuti. Che cosa, a suo giudizio, accomunava i due gruppi?
Le difficoltà. Tranne rarissimi casi anche intellettuali, scienziati molto noti hanno faticato a realizzare un progetto migratorio reso molto difficile da tante situazioni contingenti.
E che cosa li divideva?
A volte la disponibilità economiche ma soprattutto la vastità dei network relazionali e professionali. Questi network, sono degni di interesse ma anche difficili da indagare in un’esperienza migratoria che non dà vita a comunità dense e coese socialmente. L’importanza cruciale delle relazioni personali – in quanto canali di trasmissione delle informazioni – nella ricerca di un posto di lavoro o, in questo caso, di una borsa di studio o di un contratto annuale risulta evidente. Le relazioni personali di chi ha deciso l’emigrazione ne influenzano sovente la destinazione, ma più spesso costituiscono un capitale cruciale sia per il successo del progetto anche quando ci si rivolge a organizzazioni apposite – come era ad esempio l’Emergency Committee in Aid of Displaced Foreign Scholars – sia per l’inserimento in un mercato del lavoro che, inevitabilmente, per i nuovi venuti – ma soprattutto per le donne – è all’inizio del tutto opaco come accade spesso ai migranti.
Il fatto di aver taciuto nelle loro autobiografie i mestieri più umili che furono costretti a fare li accomuna, in qualche modo, ad altri gruppi di emigranti?
Non tutti lo nascosero ma la maggior parte riprendono a “scrivere il loro curriculum vitae” solo quando hanno raggiunto una posizione che reputano degna di quella di partenza. Nel libro di Lewis Coser,Refugee Scholars in America: Their Impact and Their Experiences (Yale University Press, New Haven-London 1984) si cita la moglie di un professore di zoologia arrivato dall’Europa che raccontava, sconsolata: «Mio marito è stato uno stimato professore, la cui opinione è sempre stata apprezzata. Adesso è solo un immigrato, uno delle migliaia di immigrati arrivati in America in cerca di impiego e di una occasione per ricominciare una vita in terra straniera».
Inoltre il sistema di valori europeo, lo status di cui godevano i professori universitari, ad esempio, erano diversi, e i motivi di disagio erano frequenti, spesso incomprensibili agli occhi dei colleghi statunitensi. Alvin Johnson ricorda che «fu un boccone duro da mandar giù», per alcuni accademici europei, «accettare di insegnare in una scuola di educazione per adulti» come era la New School for Social Research.
Che cosa distingue l'esperienza degli uomini da quella delle donne?
In generale si riconoscono all’intellectual wave alcune caratteristiche peculiari: la tendenza ad essere una migrazione familiare con una sostanziale parità negli arrivi di uomini e donne; un’età media decisamente più elevata di quella della grande emigrazione di massa e, infine, una netta propensione per l’insediamento nei centri urbani. Tuttavia, l’analisi della presenza femminile suscita alcune riflessioni.
La prima, quella che complica un modello di migrazione familiare che appariva consolidato, è che si sono mosse verso gli Stati Uniti donne sole, non sposate, né accompagnate. Le donne che prendono parte a questo flusso migratorio non sono soltanto persone che seguono. In più, il progetto di una migrazione è spesso legato all’attitudine e alla familiarità con precedenti esperienze di mobilità individuale. Dunque, una identica condizione di partenza, ovvero la persecuzione antisemita, non determina una totale sovrapponibilità dei percorsi femminili rispetto a quelli maschili. Le donne trovano una maggiore difficoltà ad approdare negli Stati Uniti ma soprattutto a penetrare le fitte maglie del mercato del lavoro intellettuale, perché sono meno specializzate, si trovano nei ranghi universitari meno strutturati, con una posizione più incerta e un’identità professionale fluida e meno definita.
Tuttavia, spesso gioca a favore delle immigrate, anche nella fase dell’integrazione, il ricco bagaglio di conoscenze linguistiche, più consueto nell’istruzione femminile e talvolta superiore a quello dei loro colleghi maschi.
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