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February 14, 2015
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February 14, 2015
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Better Call Saul, ma non chiamiamolo spinoff

Simone SpoladoribySimone Spoladori
Time: 5 mins read

 

Standing on the Shoulder of Giants. Si potrebbe usare quest'espressione per inquadrare Better Call Saul, che – come praticamente tutti sanno – si configura come spinoff e prequel nientemeno che di Breaking Bad. Da un lato, quindi, la serie della AMC, scritta sempre da Vince Gilligan e Peter Gould, parte con il terreno spianato e da una base piuttosto solida: milioni e milioni di fan in tutto il mondo che hanno acclamato una serie di culto da cui hanno fatto fatica a staccarsi, che non hanno mai elaborato il lutto profondo della morte di Walter White e che sono spasmodicamente ansiosi di rituffarsi in quell'universo narrativo e di ritrovare alcuni dei personaggi che hanno trasformato la storia di Heisenberg in un pezzo di storia dell'entertainment. Dall'altra parte, però, è evidente che proprio per questo Better Call Saul si trova a fronteggiare della aspettative vertiginose, un fatto che spesso, in passato, ha stritolato serie attesissime. 

Il pilot, trasmesso l'8 febbraio scorso negli Stati Uniti, è stato visto da quasi 7 milioni di persone, stabilendo un record assoluto per la cable tv e ha sollevato entusiasmi significativi da parte di critica e pubblico, facendo tirare un sospiro di sollievo ai fan. I primi due episodi sono approdati anche al festival del cinema di Berlino, in anteprima europea, accolti da un tifo da stadio.

La nuova serie dedicata al più irresistibilmente cialtrone fra gli avvocati televisivi degli ultimi anni funziona alla grande. Lo si capisce subito: si parte col botto e si comprende, dopo poche sequenze, che – a differenza di quanto si potesse temere – Better Call Saul non si accontenta di sfruttare ammiccamenti e agganci alla serie da cui deriva (che sono comunque presenti), ma prende da subito e con un piglio deciso una strada propria e indipendente.

Le prime immagini sono di un fast food, in bianco e nero. Sono dedicate, queste sì, ai fan di Breaking Bad e rispondono ad un interrogativo che rimaneva irrisolto nella quinta, splendida stagione: dove è andato a finire Saul Goodman dopo essere scappato da Albuquerque e aver cambiato identità? Lo ritoviamo baffuto, occhialuto e con una piazza in testa davvero inguardabile, mentre prepara polpette, pulisce i pavimenti e scruta con sospetto ogni energumeno che si accomoda nel locale, temendo che possa essere uno dei nemici di Walt, giunto per regolare i conti anche con lui. Malinconicamente rientrato a casa, riguarda il nastro del mitico spot Better Call Saul e ricorda i fatti che lo hanno portato a diventare ciò che è diventato.

Un inizio trionfale e non solo perché lenisce la nostalgia e ci riporta a Breaking Bad. Senza dialoghi, con dei tempi tutt'altro che televisivi ma con quel passo lento che crea dipendenza, che abbiamo già imparato a conoscere, questa breve introduzione riesce a costruire con poco un'atmosfera accattivante. 

Quando, dopo la sigla, si inizia fare sul serio e capiamo che un lungo flashback ci ha riportato a prima che accadessero i fatti "di Walt e Jesse", scopriamo come la parabola di Saul abbia degli elementi molto simili a quella di mr. White: è un loser, un avvocato spiantato, in qualche modo "costretto" ad intraprendere una strada pericolosa per cercare il riscatto. Si chiama James McGill, ha un fratello che è uscito di testa e vive rinunciando a qualsiasi forma di tecnologia perché si crede vittima di "ipersensività elettromagnetica" e soprattutto si occupa con esiti tragicomici di fare il difensore d'ufficio per criminali indifendibili che nessuno vorrebbe salvare.

Immersi nel primo episodio, per tutto il pilot l'aspetto che davvero posiziona Better Call Saul in una fascia di prodotti televisivi qualitativamente altissima è il 'passo' molto particolare che lo caratterizza: ricorda per certi versi i romanzi di Joe Lansdale, procede composto, regolare, chiede spesso pazienza, lascia allo spettatore un margine ampio per prendere le misure di spazi, caratteri e motivazioni, e poi lo aggancia con accelerate improvvise assolutamente irresistibili. Merito, in buona parte, della regia perfetta di Michelle MacLaren, che alterna dei procedimenti di montaggio molto up-to-date a situazioni di classicismo esasperato, dosando le due componenti in modo perfetto. Ne è un esempio la sequenza con cui si apre la prima puntata: dopo il prologo appena descritt, assistiamo al primo discorso difensivo McGill/Saul alla giuria, in difesa di tre ragazzi che inizialmente non sappiamo cosa abbiano compiuto.

Lunghe inquadrature statiche, il tribunale in silenzio che attende invano che lui, James, torni dal bagno, dove sta provando il suo discorso. Un inizio che esige una tolleranza ai tempi lunghi ma che crea progressivamente un'atmosfera coinvolgente, destinata ad essere capitalizzata poco dopo, quando i due avvocati presentano i loro rispettivi discorsi conclusivi. Qui la scrittura di Gilligan e Gould è al solito strepitosa, il dialogo è esilarante e si comprende perfettamente quali saranno le differenze di registro e di tono rispetto a Breaking Bad: più humour e più cinismo, in rapporto ad un modello narrativo, quello della serie madre, già decisamente dark.

Vanno aggiunti alcuni dettagli. Innanzitutto, ancora una volta, va sottolineata la bravura di Bob Odenkirk che, dopo Fargo, trova l'ennesima consacrazione con una performance al solito gigionesca e appropriata. Rispetto al Saul Goodman di Breaking Bad, Odenkirk può permettersi di lavorare anche su alcuni elementi introspettivi totalmente assenti in precedenza. Questa volta il personaggio su cui si incrociano tensioni interiori e psicodinamiche opposte e in cui confliggono ambizione e senso morale è il suo, e Odenkirk sembra perfettamente in grado di far fare al protagonista il salto di qualità.

Inoltre, come Breaking Bad, anche Better Call Saul sembra promettere delle traiettorie interessanti e molto critiche rispetto alla società americana e alla politica. Il sistema giudiziario e le sue sperequazioni classiste sembrano poter diventare progressivamente elementi destinati a subire lo stesso trattamento del sistema sanitario nella vicenda di Walter White. Inoltre, in alcuni momenti – si prenda, ad esempio, il confronto nel deserto tra Tuco e Saul a proposito della pena dei due ragazzi coinvolti maldestramente dall'avvocato in un primo tentativo di estorisione – vengono evocati i fantasmi di un passato/presente della politica USA non ancora perfettamente svaniti e alcune ferite non ancora cicatrizzate. 

Insomma, Better Call Saul è per ora promosso a pieni voti. Sforziamoci di non chiamarlo più semplicemente uno spinoff: ha già acquisito una sua assoluta dignità autonoma che lo rende un prodotto in grado di compiere un percorso indipendente da Breaking Bad.

 

 

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Simone Spoladori

Simone Spoladori

Nato a Milano, laureato in lettere e laureando in psicologia, di segno pesci ma non praticante, soffro di inveterato horror vacui. Autore per radio e TV, critico cinematografico, insegnante, direttore di un'agenzia creativa di Milano. Oltre ai film, amo i libri e credo che la letteratura americana del '900 una delle prime tre cose per cui valga la pena vivere. Meglio omettere le altre due. Drogato di serie TV, vorrei assomigliare a Don Draper, a Walter White o a Jimmy McNulty. Quando trovo il tempo, mi diverte a scalare montagne, fare foto, giocare a tennis, cucinare e soprattutto mangiare ciò che cucino. Sono malato di calcio, tifo Manchester United e Milan, ma la mia vera guida spirituale è Roger Federer.

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