Era il film più atteso della 65ª edizione del Festival del cinema di Berlino, anteprima mondiale del settimo lungometraggio di un regista che ha segnato la storia del cinema come pochi fra i suoi colleghi in vita, un'attesa che, peraltro, si è trasformata in una ressa da concerto rock all'ingresso della sovraffollata proiezione per la stampa.
Knight of Cups, nuova riflessione del filosofo Terrence Malick – che l’Orso d’oro di Berlino se l’è già portato a casa con La sottile linea rossa nel 1998, premio a cui ha affiancato, nel 2010, la Palma d’oro per il monumentale The Tree of Life – aveva il compito di dare un'indicazione probabilmente definitiva sulla direzione che il cinema del maestro americano sta prendendo. Gli ultimi due film, The Tree of Life appunto e il criticatissimo To the Wonder rinunciavano deliberatamente alla forma-racconto per prendere una strada diversa e sempre più radicale, quella di un flusso di coscienza fatto di immagini, suoni, musiche e voice over sussurate. Con Knight of Cups, Malick avrebbe recuperato almeno alcuni degli aspetti più tradizionali presenti nei precedenti lavori, oppure avrebbe perseverato nella direzione tracciata dagli ultimi due film?
Come già largamente intuibile dalla sinossi divulgata alla vigilia della proiezione, che parlava del film in termini di "absolute stream of consciousness", il settimo sigillo di Malick prosegue sulla strada precedentemente imboccata, che ormai possiamo ragionevolmente supporre sia quella definitiva, dato che con Knight of Cups Malick la spinge ancora oltre: a questo punto possiamo dirlo chiaro e tondo, non c'è più una storia ma solo situazioni, momenti e suggestioni, non ci sono più dialoghi ma solo pensieri riferiti in voice over, domande senza risposta, sussurri, gli attori non recitano più ma (si) "mostrano" i loro corpi, volteggiano in spazi immensi, lanciano sguardi e diventano anch'essi simboli e correlativi oggettivi di stati d'animo e riflessioni che partono dal profondo e sembrano volersi depositare nel profondo di chi guarda. Tuttavia, pur nell'assoluta e rigorosa continuità, Malick propone alcune novità di rilievo.
Proviamo a ricostruire ciò che rimane della struttura narrativa: Rick, impersonato da uno splendido Christian Bale, è uno sceneggiatore di Hollywood, un uomo di successo. La fama, il talento, il fascino sono entrati in rotta di collisione con il suo passato e i suoi fantasmi e lo hanno spinto nel vortice di una vita edonistica che ha raggiunto il punto di non ritorno, il fondo di una crisi esistenziale che lo ha privato di un autentico e reale contatto con se stesso. Il torrente di pensieri, emozioni e ricordi di Rick scorre nel tentativo di fare ordine ("I'm trying to redeem my life", dice spesso), di ritrovare i fili di ciò che è stato perduto ("To find my way from darkness to light"), rimosso o abbandonato. Insomma, il film ruota in modo diverso dai precedenti – questa la prima novità – attorno a temi precisi – la vanità dell'inautentico, la sindrome narcisistica e la perdita di sè – staccandosi, almeno parzialmente, dal misticismo hegeliano-cristiano delle ultime prove (comunque non del tutto assente), per virare verso un approccio decisamente più psicodinamico. Rick è imprigionato in una vertiginosa coazione a ripetere e, mentre la sua voce over tenta ostinatamente e disperatamente una ricerca profonda, le sue azioni, robotiche e catatoniche, si ripetono circolarmente in modo inquietante, ricorrono le corse in macchina per le strade di Los Angeles, le passeggiate lente e annoiate sulle spiagge, le feste, i tuffi in piscina, le donne, ma tutto sembra finto, come il sosia di Elvis che Rick incontra a Las Vegas con una delle sue donne.
Il film è un nòstos interiore e Malick lo "segna" scegliendo una partenza da brividi: "As I walk’d through the wilderness of this world, I lighted on a certain place where was a Den, and I laid me down in that place to sleep; and as I slept, I dreamed a Dream…", versi tratti da The Pilgrim’s Progress di John Bunyan e recitati dal grande sir John Gielgud. Poi l'aurora boreale vista dallo spazio e il deserto, in cui il protagonista cammina spaesato e impaurito. Un inizio visivamente ed emotivamnte straordinario, che ci proietta nell'inconscio di Rick, sezionato – questa la seconda novità – in sei parti, che Malick, adottando una singolare (per lui) struttura a capitoli, definisce con sei simboliche carte dei tarocchi (The Moon, The Tower, The Hangled Man, ecc…) le quali rappresentano altrettanti personaggi e passaggi fondamentali dell'esistenza di Rick. Lo "spirito" si fa inconscio, insomma, e si organizza sul piano significante.
Quindi, mettiamo insieme i pezzi di questo discorso. Malick demolisce l'idea di racconto, ma rispetto a quanto accaduto in passato "organizza" il materiale analitico in maniera più scientifica: ciò che resta della trama suggerisce un tema centrale – la vanità edonistica della vita contemporanea – e la divisione dei capitoli ci fornisce dei punti cardine che generano un "discorso", una struttura linguistica, come se la voce over venisse da "sotto" la patina di falsità, come se fosse davvero il discorso dell'Altro.
Pezzo dopo pezzo, apprendiamo che Rick – è lui il "cavaliere" del titolo, carta dei tarocchi che compare nel film e che ne descrive la sua natura razionale e romantica al tempo stesso – aveva due fratelli, che uno di questi è morto giovane, che il padre è un uomo burbero e problematico, che l'altro fratello non ha mai elaborato totalmente il lutto, che la madre è assente e che le relazioni con le varie, tante, bellissime donne della sua vita sono segnate da anaffettività e infinite contraddizioni. Intorno a lui si dipana un baccanale grottesco degno del Satyricon, una hollywoodiana fiera del vacuo nella quale sembra sopravvivere indenne solo chi si adegua e si conforma completamente, sacrificando l'anima sull'altare del vuoto.
Un ruolo fondamentale nel cinema di Malick ha ormai Emmanuel Lubezki, il direttore della fotografia che rende possibile questa poesia sinfonica audiovisiva. Lubezki filma, in un collage di formati (35 mm, 65 mm, vari formati digitali) luoghi abbandonati, in cui la macchina da presa ondeggia senza tracciare mai una connotazione geografica precisa e senza mai istituire un legame tra un luogo e un altro, di nuovo correlativi oggettivi della perdita di sè, posti che rimandano a progetti imprenditoriali e di vita falliti, simboli di pensieri grandiosi poi crollati nella polvere, in una luce abbacinante ma tremendamente fredda. Da notare che negli ultimi film di Malick non c'è mai la notte, forse perché è la vita stessa, quella diurna, ad essere avvolta in un'opprimente membrana onirica.
Lo stile di Malick ha quindi compiuto un passo "oltre" e si trova ora in un territorio "altro", che mantiene con il cinema degli stretti rapporti di parentela ma che è qualcosa di diverso. Arte esperienziale, che si fa "vivere e provare" più che guardare. È montaggio, non è un film, si potrebbe obiettare. Forse. Ma è poesia, è bellezza, è magia.
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