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August 21, 2014
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August 21, 2014
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Il cinema della “crisi” ritrova valore e valori a Locarno

Simone SpoladoribySimone Spoladori
Time: 6 mins read

 

Sessantasette, ma non li dimostra. Anzi, il festival di Locarno è più fresco e vitale che mai, anche e soprattutto grazie alla lucida direzione artistica di Carlo Chatrian. Se c'è un festival in Europa in grado di mescolare felicemente addetti ai lavori e pubblico, di mostrarsi aperto, accessibile e popolare e allo stesso tempo “per cinefili”, dando contestualmente un riflesso indicativo delle nuove tendenze del cinema nel mondo e dei grandi temi che le attraversano, quel festival è Locarno.

Nonostante il maltempo, nonostante le capziose polemiche sulla partecipazione di Polanski e la conseguente rinuncia del maestro polacco a presenziare alla serata in piazza Grande del 14 agosto, nonostante l'ormai radicata diffidenza per i festival europei dei grandi titoli americani, con le majors che ritengono onerose e improduttive le trasferte oltreoceano, Carlo Chatrian ha vinto buona parte delle sue scommesse, con una gestione lucida e appassionata.

Procediamo allora con una disamina ordinata della kermesse, sezione per sezione, e partiamo, però, dall'unica nota dolente, così da concentrare gli aspetti positivi in fondo. A nostro giudizio fra quelle che compongono la manifestazione, la sezione “Piazza Grande” di quest’anno è stata nettamente al di sotto della sufficienza. Nella splendida cornice della piazza di Locarno, quando calano le luci e si intravedono le stelle, si dovrebbero fondere le due anime del festival, quella "alta" e quella pop, ammesso che una suddivisione di questo tipo abbia ancora senso. Fatto sta che la maggior parte dei film da qui transitati – eccezioni: il bellissimo "Sils Maria" di Assayas e "Il Gattopardo" restaurato e proiettato in 4K – sono apparsi di qualità mediocre, molto appiattiti verso una complessiva banalità di soluzioni che hanno raffreddato il cuore scenografico del festival ticinese. 

Il “Concorso internazionale”, invece, la sezione per così dire “portante” della manifestazione, è stato di alto livello, con un connubio che tanto ci è piaciuto tra cinema di autori consolidati e molto cinéphiles e scommesse su giovani autori all’inizio della loro carriera. Il risultato è stata una selezione di altissimo profilo, con alcune punte di eccellenza e molto rappresentativa delle spinte differenti che animano  in questo momento il cinema mondiale. Citiamo il meglio che è passato dal concorso, anche per permettere ai lettori de La Voce di orientarsi tra poche settimane, dato che alcuni di questi titoli saranno presenti al New York Film Festival.

Menzione obbligata, innanzitutto, per Mula sa kung ano ang nono – From what is before del maestro filippino Lav Diaz. Lunghissimo – come tutto il suo cinema – e a tratti estenuante, ma affascinante e commovente. Ha vinto meritatamente, anche se in modo un po’ “annunciato”, il Pardo d’Oro. Il trionfo del cinema d’autore è suggellato dal Premio per la miglior regia che la giuria presieduta da Francesco Rosi – Leone d’oro a Venezia lo scorso anno con Sacro Gra – ha assegnato a Pedro Costa per l’onirico Cavalo Dinheiro – Horse Money, un’immersione nell’inconscio collettivo della rivoluzione portoghese degli anni Settanta, che prosegue il discorso autoriale portato avanti da Costa in modo molto simbolico, criptico e seducente. Precisiamo che il film di Costa sarà presente al New York Film Festival.

Ci sono piaciuti molto anche altri titoli che la giuri ha ignorato. Citiamo innanzitutto A Blast, film greco estremo, sconnesso e punk di Syllas Tzoumerkas, alla sua opera seconda (il lungometraggio d’esordio, Hora Proelefsis, aveva ben impressionato nel 2010 alla "Settimana della critica" a Venezia), che racconta la crisi devastante che la Grecia sta attraversando ormai da anni attraverso la messinscena della progressiva distruzione di una donna e della sua famiglia, un film che conferma il buon momento del cinema greco. Tutt’altro approccio è quello scelto da Fernand Melgar, regista svizzero di origine algerine, che con il documentario L’abri racconta con semplicità e delicatezza la quotidianità di un centro di accoglienza di Losanna che ogni inverno offre una notte al coperto e dei pasti caldi ai senza tetto della città, facendo i conti soltanto con 60-70 posti disponibili e una neanche troppo celata ostilità del paese elvetico verso gli extracomunitari, recentemente confermato dal referendum dello scorso 9 febbraio con cui la confederazione ha reintrodotto il contingentamento degli immigrati, frontalieri italiani inclusi. Attenzione particolare merita anche l’argentino Dos Disparos (sarà presentato il 29 settembre al New York Film Festival con il titolo di Two Shots Fired), surreale vicenda di un tentato suicidio e di una pallottola che proprio non si riesce a trovare nel corpo di un ragazzo. Anche in questo caso si racconta una “crisi”, quella dell’Argentina post-default, attraverso personaggi stralunati che si muovono come zombie lungo un orizzonte piatto e senza prospettive.

Ai nostri lettori italiani in America dobbiamo dire, però, che a noi non sono piaciuti né il film italiano in concorso, Perfidia, di Bonifacio Angius, fitto di luoghi comuni e con una scrittura che non ci ha convinto pienamente, né il film statunitense, Listen Up Philip, di Alexander Ross Perry, film borioso, compiaciuto e per noi irritante, nonostante un cast in grande forma, guidato da Jason Schwartzmann.

La bellissima selezione “Cineasti del presente”, forse la migliore in assoluto, ha avuto due vertici straordinari. Il messicano Navajazo di Ricardo Silva (giustamente premiato con il Pardo d’oro per questa sezione del concorso), documentario caustico e provocatorio sugli aspetti più sordidi della cittadina di Tijuana, drammaticamente precipitata dopo la costruzione del muro anti immigrazione da parte degli Stati Uniti, e lo statunitense Buzzard, opera prima di Joel Potrykus, uno spietato ritratto di un nerd postmoderno, disadattato, violento e senza speranze nella provincia americana, interpretato in maniera straordinaria dal giovane Joshua Burge. Accanto a questi due titoli, altri piccoli film di grandissimo interesse: l’americano Christmas, Again, di Charles Poekel, lo ieratico road movie polacco They Chased Me Through Arizona, di Matthias Huser, il colombiano Los Hongos, di Oscar Ruiz Navia, che si è aggiudicato il premio speciale della giuria di questa sezione

Per l’Italia, un film che ha rivelato un regista da tenere d’occhio per il futuro: Simone Rapisarda Casanova, ex ricercatore informatico, siciliano trapiantato in Canada, ha diretto un film immaginifico e originale, La creazione di significato, che gli è valso un riconoscimento come "Miglior regista emergente".

Le altre sezioni, “Fuori concorso” (imperdibile Kommunisten di Jean Marie Straub), “Settimana della critica” e i “Pardi del futuro” hanno offerto tanto buon cinema a rendere ancora più sostanziosa la proposta del festival, ma un’ulteriore menzione speciale merita la splendida retrospettiva dedicata agli anni d’oro della Titanus e curata da Sergio Germani e Roberto Turigliatto, capace di ripercorrere il cinema italiano della sua Golden Age attraverso una delle case di produzione più rappresentative ed eterogenee, quella guidata dall’istrionico Goffredo Lombardo.

Ora, se provassimo a mettere insieme i pezzi di questo mosaico per cogliere almeno in parte il filo di un discorso unitario emerso dalla selezione di Locarno, potremmo dire innanzitutto che fortunatamente in tutto il mondo si muovono delle nouvelle vague vitali e interessanti, che sembrano aver assimilato in maniera quasi del tutto consapevole le nuove opportunità offerte dal digitale. In secondo luogo, possiamo constatare il buono stato di salute del cinema indipendente americano, che continua a fornire esempi di film ben scritti e ben diretti, girati con pochi soldi e tante idee, mentre al di là di qualche timido segnale, proprio le idee sembrano mancare al giovane cinema indipendente italiano.

Ci pare di poter dire che sono tre i temi che emergono con maggiore chiarezza dalla selezione di Locarno. Innanzitutto abbiamo visto una grande quantità di film che parlano di “crisi”: personale, economica, politica, di valori. "Crisi" come evento drammatico che produce forzatamente un cambiamento, una rottura, una svolta necessaria che permette alla lunga anche una trasformazione positiva. In seconda battuta, i film di Locarno hanno parlato spesso di immigrazione, della fuga dalle periferie del mondo e in particolare di come erigere muri e barriere per bloccare i flussi migratori e voltarsi dall’altra parte, fingendo che nulla accada fuori da casa propria, non solo è disumano ma spesso provoca reazioni a catena imprevedibili.

Infine tanti, troppi sono i film che raccontano la guerra, le guerre, passate o presenti che siano.

Insomma, se è vero che il cinema ci permette di guardare il mondo da un’altra prospettiva e e ci permette di capirlo meglio, ci sembra di poter dire che la complessità del tempo che stiamo vivendo, vista attraverso la lente della bella selezione di questa edizione di Locano, pare ancora più drammaticamente inestricabile.

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Simone Spoladori

Simone Spoladori

Nato a Milano, laureato in lettere e laureando in psicologia, di segno pesci ma non praticante, soffro di inveterato horror vacui. Autore per radio e TV, critico cinematografico, insegnante, direttore di un'agenzia creativa di Milano. Oltre ai film, amo i libri e credo che la letteratura americana del '900 una delle prime tre cose per cui valga la pena vivere. Meglio omettere le altre due. Drogato di serie TV, vorrei assomigliare a Don Draper, a Walter White o a Jimmy McNulty. Quando trovo il tempo, mi diverte a scalare montagne, fare foto, giocare a tennis, cucinare e soprattutto mangiare ciò che cucino. Sono malato di calcio, tifo Manchester United e Milan, ma la mia vera guida spirituale è Roger Federer.

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