A ben guardare il miglior cinema di Clint Eastwood racconta di fantasmi. Il passato perduto, forse soprattutto nelle sue contraddizioni e nei suoi luoghi oscuri, è il tema ricorrente di molti capolavori del cineasta: da Gli spietati a Mystic River, da Changeling e Gran Torino, Eastwood sa gettare uno sguardo indietro nel tempo e rappresentare ideali, emozioni e psicologie che il il mondo contemporaneo non possiede più, o ha deciso di ignorare. Jersey Boys si inserisce con pienezza in questo discorso poetico, riproponendolo però attraverso la cornice più leggera e frizzante del film musicale.
Utilizzando la struttura narrativa del musical che ha spopolato a Broadway negli ultimi anni, Eastwood si lancia con coraggio in un'operazione di ricostruzione e ridefinizione davvero impressionante, soprattutto perché riesce a non snaturare l'essenza dello spettacolo teatrale. Con poche, semplicissime pennellate semplicemente lo trasforma in un suo film. Ciò riesce prima di tutto grazie al controllo del ritmo della messa in scena, fondamentale nel cinema dell'autore americano. Invece di seguire le direttive estetiche che hanno definito i musical degli ultimi anni come un tripudio di musica e montaggio, Jersey Boys possiede una propria fluidità contenuta, morbida, che permette di approfondire psicologie e rapporti tra i personaggi. Come solo i grandi autori sanno fare, è Eastwood a piegare storie e generi alla sua idea di cinema, non il contrario. Stavolta però la malinconia e il dramma personale sono ben celati dentro una confezione molto più briosa del solito.
Grazie ad alcuni semplici ma efficacissimi espedienti, come ad esempio i quattro protagonisti che a turno raccontano allo spettatore la storia dei Four Season, il film intrattiene il pubblico con momenti di assoluta leggerezza. Salvo poi ricordargli all'improvviso con dolorosa efficacia che il successo è effimero, e i valori da perseguire sono ben altri. Jersey Boys sotto questo punto di vista è un film amaro e impietoso quanto lo sono molti altri capolavori del cineasta, soltanto riesce a nascondere la sua disillusione dentro una confezione sorprendentemente effervescente, cosa insolita ma non totalmente estranea alla filmografia di Eastwood (viene in mente su tutti un film "commerciale" ma riuscitissimo come Potere assoluto).
Coadiuvato dalla solita, magnifica fotografia di Tom Stern e da un quartetto di attori semi-sconosciuti ma perfetti (gli stessi che hanno portato Jersey Boys a Broadway), Clint Eastwood ha dipinto un altro ritratto in chiaroscuro di rara efficacia cinematografica. Alcuni potranno storcere il naso e trovare questo film troppo “leggero”. Sarebbe un errore di valutazione: basta ad esempio la sequenza finale a gettare un velo di palpabile malinconia a una storia di redenzione e amicizia. Ultimo, caloroso applauso va poi di diritto a Christopher Walken, che con pochissime scene dimostra ancora una volta il suo talento viscerale e unico.