Pier Francesco Diliberto, in arte Pif, non è un pifferaio magico. È invece il regista di un film che, pur ricordando tanti morti ammazzati, riesce a divertire, a farti piangere, disperare e poi, miracolosamente, anche sperare. Pif è nato e cresciuto a Palermo, e anche chi scrive ha vissuto (dall’età di sei anni) nella capitale della Sicilia. Questo film non lo potevo proprio perdere, complimenti a Open Roads, la magnifica rassegna del Lincoln Center, per aver incluso la prima opera di Pif tra i film italiani da portare quest’anno a New York.
La mafia uccide solo d’estate che abbiamo visto sabato e potete ancora vedere giovedì, descrive la “mattanza” di poliziotti, carabinieri, politici, imprenditori, giornalisti e giudici che avvenne a Palermo negli anni Settanta-Ottanta fino alle stragi di Capaci e Via d’Amelio del ’92 dove persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La storia degli uomini della legge che cadono sotto i colpi della mafia mentre chi comanda a Roma non si sconvolge più di tanto (“Preferisco i battesimi ai funerali” rispose Giulio Andreotti a chi gli chiese perché non si fece vedere a Palermo per i funerali del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa) viene raccontata da Pif con lo stile tutto suo, da MTV. Il regista palermitano, trapiantato da anni a Milano dove appunto fa il conduttore-giornalista in una trasmissione di successo di MTV, al suo film dà quello stesso ritmo che lui si è inventato per far televisione, in cui fa divertire mentre informa. Una scelta precisa di stile, anche perché di set cinematografici Pif ne ha frequentati e con pezzi grossi del cinema italiano, come racconta nella bella intervista a Chiara Spagnoli Gabardi.
All’inizio, almeno a chi scrive, questo ritmo da commedia tv, fa uno strano effetto dato il tema trattato, ma dura poco. La storia che racconta Pif è più forte di questo stile poco cinematografico. E come riuscì a Roberto Benigni che con La vita è bella affrontò l’Olocausto rischiando di far solo ridere ma alla fine commosse e vinse l’Oscar, anche a Pif riesce un film che pur buffo, sa raccontare la tragedia di una città lasciata indifesa a subire una violenza mafiosa che, si capisce, non disturbava più di tanto l’Italia degli ultimi anni di guerra fredda.
Il film di Pif quindi racconta Palermo in balia della mafia attraverso sguardi e pensieri del piccolo Arturo (Alex Bisconti), bambino timido che cresce scoprendo che nella sua città chi perde la testa per le “femmine” rischia di morire e che sa riconoscere il boss Toto Riina senza averlo mai visto prima. Merito di Pif, che intreccia la storia delle violenze mafiose con la storia d’amore del piccolo Arturo (una volta cresciuto è interpretato dallo stesso Pif) per la compagna di scuola Flora (interpretata dalla piccola Ginevra Antona e poi, una volta cresciuta, da Cristiana Capotondi) è di farci riconoscere e celebrare tutti i grandi eroi di quella lunga stagione di violenza. Si tende infatti in Italia a credere che a Palermo le grandi stragi di mafia siano avvenute agli inizi degli anni Novanta, con l’uccisione di Falcone e Borsellino. Ma prima di loro e per almeno 15 anni, sono in tanti coloro che muoiono senza che lo Stato sappia come (o voglia veramente) fermare quella mattanza. E se sicuramente Carlo Alberto Dalla Chiesa è un nome troppo importante per essere facilmente dimenticato, tanti altri che vengono uccisi dalla mafia sono persone di immenso valore civile ma che ormai pochi ricordano. Così grazie a Pif, il pubblico italiano può accorgersi di un certo Boris Giuliano, il commissario ucciso il 21 luglio del 1979 al bar del cinema Lux, in via Di Blasi, a pochi passi alla parallela via Federico Pipitone, la strada dove quattro anni dopo, sempre a luglio, viene ucciso il giudice Rocco Chinnici, con una autobomba potente come quella di nove anni dopo in Via D’Amelio (strada molto più periferica rispetto alla via Federico, che invece si affaccia alla centralissima Via Libertà).
Giuliano, che porta lo stesso cognome del più famoso bandito di Montelepre, merita di essere ricordato come un grande eroe dei siciliani liberi. Quel commissario che aveva scoperto i traffici di droga tra la Sicilia e New York, Pif ce lo mostra come un affettuoso palermitano che offre le iris al cioccolato al piccolo Arturo, prima di venire ucciso proprio in quel bar così familiare. Ed ecco quindi anche Rocco Chinnici, il giudice che inventò il pool antimafia e che fu il maestro e protettore di Falcone, Pif ce lo mostra simpatico e incuriosito dal piccolo Arturo mentre se lo ritrova sotto casa intento a corteggiare l’amata Flora, la compagna di scuola che vive proprio nello stesso palazzo del giudice, in quella portineria che poi salta in aria il 29 luglio del 1983. Nel film di Pif non ci sono tutti, perché i morti di mafia di quegli anni sono troppi per entrare tutti in un film, ma qui vogliamo ricordare anche il coraggioso Antonino Saetta, magistrato che condannerà i mafiosi killer di Chinnici, e che verrà a sua volta ucciso col figlio a Caltanissetta nel 1988.
A Palermo e dintorni, in quegli anni, era mattanza continua. Il giudice Cesare Terranova, il presidente della Regione Piersanti Mattarella e il segretario regionale del PCI Pio La Torre, gli ufficiali dei carabinieri Giuseppe Russo, Emanuele Basile e Mario D’Aleo, i poliziotti Beppe Montana e Antonio Cassarà, l’imprenditore Libero Grassi, e altri poliziotti ancora, come Nino Agostino ed Emanuele Piazza, agente del Sisde che solo l’intervento di Giovanni Falcone fece riconoscere come un poliziotto vittima della mafia dopo la sua scomparsa, quando ancora lo stato si ostinava a far finta di nulla lasciando circolare la voce che il cacciatore di latitanti fosse scappato con una “femmina”.
Tanti e tanti altri ancora che ovviamente mancano nel film di Pif: troppi i nomi da ricordare insieme a tutti quei poliziotti caduti mentre scortavano i giudici massacrati. Sicuramente con La mafia uccide solo d’estate (titolo ripreso dalla risposta che il padre del piccolo Arturo da per rassicurare il figlio sul pericolo mafioso a Palermo) emerge chiaramente, mentre si sorride a qualche battuta e si vedono i mafiosi di Riina mangiare panini mentre “scannano cristiani”, che tutte le vittime, anche quelle che non si vedono (come la moglie dell’agente Nino Agostino, Ida Castelluccio, incinta e uccisa accanto al marito perché evidentemente sapeva quello che non doveva), che qualcuno aveva deciso che a Palermo lo “show” doveva andare avanti. Già, mentre la mafia scannava, la vita continuava come se fosse tutto “normale”. Almeno per Beirut, in quegli stessi anni, si riuniva il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ma per Palermo in Italia si faceva finta di nulla. E così si andava a scuola, si giocava a pallone, si usciva con il primo amore, si passava in vespino da via Isidoro Carini, il 3 settembre 1982, dove pochi minuti dopo avrebbero massacrato Dalla Chiesa e la moglie Manuela Setti Carraro… Già, forse per questo la Mafia uccide solo d’estate, così i palermitani potevano distrarsi facendo il bagno a Mondello, all’Addaura o a Sferracavallo, senza che a quei tanti Arturo e Flora venisse in testa per anni di gridare basta, ribellatevi o andate via da questa città di morte.
Pif, col suo piccolo grande film, ricorda a generazioni di palermitani che hanno fatto malissimo a far finta di nulla, a crescere figli e nipoti cercando di esorcizzare la mafia come fosse un pericolo per gli altri. Le scene finali del film, quelle dei funerali delle vittime, e della folla di palermitani che finalmente grida contro la mafia e anche contro lo “stato complice”, danno forti emozioni a chi c’era o a chi avrebbe voluto esserci.
Così Pif chiude il film con Arturo che finalmente con accanto la sua amata Flora diventa padre, ma invece di ignorare la realtà per proteggere il figlio, con lui ancora piccolissimo in braccio, già fa il tour di tutti i luoghi di Palermo dove sono caduti gli eroi che si sono battuti, perché è non dimenticando Boris Giuliano o Rocco Chinnici che si combatte la mafia.
Infine, questo film ci fa applaudire Pif anche per la figura del giornalista Francesco (interpretato da Claudio Gioè). Il piccolo Arturo ne è affascinato e vuole seguirne le orme e si capisce che Francesco è un giornalista che dà fastidio ai potenti, che vien messo “allo sport” per questo. E tocca a Francesco dire al piccolo Arturo che il giornalista non deve farsi piacere ai potenti, ma semmai infastidirli, il giornalista deve essere “un rompicoglioni!”. A Palermo negli anni di cui parla il film di Pif, la mafia ha ucciso giornalisti veri, come Mario Francese, ma quei ricordi e il messaggio non sono solo per chi è cresciuto in quella città. Per scongiurare che a Roma continuino a susseguirsi altri Andreotti – il piccolo Arturo, prima affascinato dal sette volte premier, ne capirà finalmente il ruolo cinico – il messaggio che Francesco Diliberto, in arte Pif, lancia attraverso la figura di Francesco è chiarissimo.