E’ il Natale che ha portato la neve su Palestina e Medio Oriente, quasi a confermare la tradizione che chiama “bianco” il periodo dell’anno nel quale credenti e non credenti incontrano la narrazione evangelica della discesa di Dio tra gli uomini: quando “la Parola si fece carne”. E’ il Natale che ha visto Gaza sunnita cancellare dai libri di storia dati ai ragazzi palestinesi ogni riferimento all’esistenza di Israele, in una surreale fuga dalla realtà in nome del nazionalismo estremo che non può che nutrirsi di odio e ignoranza.
La sfida alla ragione e all’evidenza, portata dalla teologia cristiana con lo scandalo di Betlemme, è risolta dalla fede dei credenti e dal rispettoso interrogarsi di chi non ha quel “dono”: agli uni e agli altri, il lattante che incarna Dio creatore dà motivo di riflessione e di amore, per l’innocenza, l’innocuità, la promessa che emana. Ma già accanto ai luoghi della sacra mangiatoia, uomini e governanti reiterano l’eterno scontro, anche assassino, di interessi, ideologie, culture, religioni. L’istinto predatore non prevede conciliazione: l’obbligo all’amore del fratello, fulcro della predicazione da adulto del Bambinello, non risulta accolto nei due millenni della Buona Novella.
Il che non sminuisce il senso del gesto che il Dio cristiano compie nel nascere come umano, pur essendo dall’eternità: il compimento della redenzione, l’affermazione dell’amore per la nostra specie permangono attraverso il tempo e la storia. Resta la contraddizione tra un Dio che si pone come padre dell’unica grande famiglia di umani, e uomini che fin da Caino reiterano il segno della differenza su quello della comunanza, dell’intolleranza sull’amore, generando sfruttamento, distruzione, guerra, schiavismo, dominazione.
Natale dovrebbe essere una grande generale tregua nella quale ripensare il nostro destino e i nostri errori di fondo, alla luce di un messaggio di pacificazione e giustizia che non ha trovato, nella storia, accoglienza in un sufficiente numero di “uomini di buona volontà”. E’ invece la grande abbuffata consumistica e il frastuono continuo dei “season’s days” che stiamo da qualche settimana reiterando, il modo politically correct di negare il significato religioso e universale della nascita di Gesù, per ripiegare di fatto nel particolarismo della festa pagana del solstizio d’inverno.
Quando le società erano impregnate del senso del sacro, il bambino di Betlemme trovava diversa accoglienza. E’ nei secoli intorno al Mille che si diffonde il suo culto, in particolare in Spagna e Italia grazie alle penetranti personalità di Teresa d’Avila e Francesco d’Assisi. Nel culto erano sottolineati due aspetti: la regalità del figlio del Re supremo, la sua grazia in quanto “pargoletto” il più caro e amabile, esposto all’inclemenza del freddo, povero tra i poveri. Le due virtù troveranno nel Settecento, grazie al napoletano Alfonso Maria de’ Liguori, la sintesi artistica del canto popolare “Tu scendi dalle stelle”, presente ancora oggi nelle cerimonie della notte santa. Nell’orbe cristiano, i fili di paglia, simbolo della mangiatoia scaldata da bue e asinello, diverranno benaugurante dono ai figli, nelle culle svedesi come sulle tavole natalizie della Polonia cattolica. Nella Russia ortodossa sarà un mucchietto di grano a finire in tavola, insieme al grande dolce per la famiglia.
Hanno ragione i cristiani di lingua spagnola a chiamare il Natale “Noche buena”. In Spagna la tradizione fa visitare ai bambini, nel pomeriggio del 24, i presepi allestiti nelle case, ricevendo dolcetti e doni, in attesa della solenne messa di mezzanotte. Noche buena, notte buona e notte della bontà. Così sia per tutti noi, cari lettori.