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April 29, 2013
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April 29, 2013
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Quei film scomodi che non si vedono altrove

Maurita CardonebyMaurita Cardone
Una immagine del Tribeca Film Festival

Una immagine del Tribeca Film Festival

Time: 4 mins read

Si è chiusa domenica 28 aprile, la dodicesima edizione del Tribeca Film Festival. Come nella migliore tradizione del festival, le opere presentate hanno portato sullo schermo contenuti di grande impegno sociale.
Il festival, nato all'indomani dell'11 settembre con l'obiettivo di rivitalizzare Lower Manhattan e di ridare centralità a New York come importante luogo di produzioni cinematografiche, si distingue per un approccio poco orientato alle celebrità e più attento alla qualità dei film. Gli 89 film e i 60 cortometraggi provenienti da 37 paesi diversi proiettati nel corso di 12 giorni riflettono una certa serietà, se non gravità, dei contenuti. Dal dramma del cancro, alle dipendenze, alla guerra, ai diritti delle coppie gay, i temi del festival affrontano alcune questioni di stringente attualità, lontano dalla retorica dei media mainstream. Non fanno eccezione le opere premiate da una giuria di cui hanno fatto parte, tra gli altri, Blythe Danner, Whoopi Goldberg e Evan Rachel Wood.

Due premi sono andati a The Rocket  di Kim Mordaunt, vincitore del Founders Award for Best Narrative Feature e del Best Actor in a Narrative Feature Film, andato al giovane protagonista, attore non professionista, Sitthiphon Disamoe. Il film racconta la storia di un bambino del Laos che, costretto con la famiglia a lasciare il proprio villaggio a causa della costruzione di un'immensa diga, si ritrova a partecipare a un rocket festival, con la speranza di potersi reinventare un futuro.  
Il premio per la migliore attrice è andato invece a Veerle Baetens che, nel film Belga-Olandese The Broken Circle Breakdown di Felix van Groeningen, interpreta il personaggio drammatico di una giovane donna dal solare spirito anticonformista che, nel corso della storia, viene trasformata irreparabilmente da un inconsolabile dolore. La stessa pellicola ha vinto anche il premio per la migliore sceneggiatura, scritta da Carl Joos e Felix van Groeningen.
Marius Matzow Gulbrandsen si è aggiudicato il premio per la fotografia con Before Snowfall, una coproduzione tedesca, irachena e norvegese diretta da Hishman Zaman. Il film racconta la storia di un giovane curdo che, quando la sorella si sottrae a un matrimonio combinato, si trova a dover ristabilire l'onore della famiglia.
Il premio alla regia è andato al canadese Emanuel Hoss-Desmarais, per Whitewash, una dark comedy ambientata nelle foreste del Quebec in cui il protagonista si confronta con ossessioni e paure mentre un gelido inverno mette a dura prova la sua mente e il suo corpo.
Menzioni speciali della giuria sono andate a Stand Clear of the Closing Doors di Sam Fleischner, la vicenda di un ragazzo autistico che scappa di casa per imbarcarsi in un'odissea all'interno della metropolitana di New York, e Harmony Lessons, di Emir Baigazin, storia di un adolescente kazako alle prese con bullismo e criminalità.

Tradizionalmente il Tribeca Film Festival dà il meglio di sé nella sezione documentari che sono il vero tratto distintivo del festival. In questa edizione 2013, a vincere la sezione documentario è stato The Kill Team, in cui il regista Dan Krauss (USA), mostra le vicende di un soldato americano sotto accusa per crimini di guerra in Afganistan. Nella motivazione della giuria si legge: “The Kill Team esamina le falle di base nella preparazione dei giovani soldati alla guerra, che li porta a vedere le persone come target senza umanità. Una cultura dell'omicidio che sembra esprimersi anche in tempi di pace”.
Il premio alla regia per i documentario è andato a Sean Dunne, autore di Oxyana che racconta l'epidemia di droghe, pillole e antidolorifici a Oceana, cittadina della regione degli Appalachi, ribattezzata dai suoi abitanti Oxyana, per l'alta diffusione di OxyContin. La giuria ha commentato: “Profondamente triste senza essere sentimentale. Senza paura, senza battere ciglio e abile nella capacità del regista di tirare fuori storie strazianti dai suoi soggetti. Non è un film facile da guardare. Potrebbe essere letto come senza speranza, ma alla fine, qualcosa della luce di ogni persona traspare. (Il film) mostra un'acuta consapevolezza della gravità della loro situazione mescolata alla battaglia interiore per evitare che questo film diventi l'ultima storia di questa gente o della loro, un tempo fiera, città. Non dimenticheremo mai i volti di queste persone, le loro storie e le loro battaglie”.
É una storia di battaglie per i diritti civili, quella che ha vinto il premio Best Editing in a Documentary Feature: Let The Fire Burn, di Jason Osder, racconta gli incidenti che nel 1985 portarono all'impasse nei rapporti tra il movimento per i diritti degli Afro-americani e le autorità di Filadelfia.
Il premio del pubblico è infine andato al documentario Bridegroom, di  Linda Bloodworth-Thomason, un film che affronta il tema dei diritti delle coppie omosessuali, attraverso la storia di Shane e Tom, due ragazzi impegnati in una solida relazione troncata dall'improvvisa morte di Tom che costringe Shane a scontrarsi con una realtà in cui le coppie gay non hanno gli stessi diritti di quelle eterosessuali.

Il festival, che, tra film e dibattiti, ha richiamato un pubblico di 117.000 persone, si conferma una vetrina su una cinematografia che spesso viene dimenticata dai circuiti commerciali. Una cinematografia che sceglie modi inusuali e a volte sperimentali per raccontare storie e che sceglie contenuti anche scomodi. Come ha detto una delle fondatrici del Festival, Jane Rosenthal, “Vogliamo che sia un festival in cui la gente possa vedere e sentire cose che altrimenti non vedrebbe o sentirebbe”. Novità di quest'anno è stato l'approccio transmediatico che ha trovato spazio in Storyscapes, una nuova sezione del festival dedicata all'arte interattiva, e nella collaborazione con il Moma PS1 che, in occasione del festival, ha ospitato Alberi, opera dell'artista italiano Michelangelo Frammartino, dedicata ai riti arborei in Basilicata.

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Maurita Cardone

Maurita Cardone

Giornalista freelance, abruzzese di nascita e di carattere, eterna esploratrice, scrivo per passione e compulsione da quando ho memoria di me. Ho lavorato per Il Tempo, Il Sole 24 Ore, La Nuova Ecologia, QualEnergia, L'Indro, senza che mai mi sia capitato di incappare in un contratto stabile. Nel 2011 la vita da precaria mi ha aperto una porta, quella di New York: una città che nutre senza sosta la mia curiosità. Appassionata di temi ambientali e sociali, faccio questo mestiere perché penso che il mondo sia pieno di storie che meritano di essere raccontate e di lettori che meritano buone storie. Ma non ditelo ai venditori di notizie.

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