Tony Bennett è morto dopo anni di battaglia contro l’Alzheimer. Non appena la notizia ha incomiciato a rimbalzare per tutto il mondo mi è tornata alla mente l’ultima importante intervista della mia carriera giornalistica. Fu proprio con Anthony Dominick Benedetto (è questo il vero nome di Tony Bennett) che vennero a concludersi i miei trent’anni di interviste con personaggi famosi. Quella con Tony Bennett fu un’intervista difficile, dolorosa, impossibile. Come si fa a intervistare una persona la cui mente non è più in grado di elaborare domande e risposte? Come si fa a conversare con un personaggio che, benchè famosissimo, ti sta seduto davanti come un pulcino spaventato, o meglio come un coniglietto che ti guarda incuriosito ma non capisce bene chi tu sia e che cosa significhino quelle parole che gli rivolgi?
Esperienza con malati di Alzheimer ne avevo poca. Ricordavo una zia acquisita che, affetta da quella condizione, ricordava bene il passato lontano ma non riusciva a ricordare una frase detta due minuti prima. Avevo avuto anche un po’ di esperienza con mia madre che tre anni prima dell’intervista con Tony Bennett era venuta a mancare dopo alcuni anni affetta da profonda demenza senile. in quelle condizioni non sarei mai stato in grado di intervistare mia madre, ma quando Repubblica mi chiese di intervistare Bennett non avevo idea di quanto sarebbe stato penoso.
Era il 13 settembre 2018. L’occasione era l’uscita di un suo nuovo album. Si intitolava “Love is here to stay” ed era un duetto con la cantante jazz Diana Krall. Ero felice di questo incarico. Chi non lo sarebbe di incontrare una figura leggendaria nel panorama musicale americano? Non capita tutti i giorni di chiacchierare con un divo dello spettacolo che inizió la sua carriera negli anni ’50 e sei decenni dopo non era ancora tramontato. Una star di tale talento da avere interpretato con enorme successo canzoni di jazz e brani delle Big Band, motivi di Broadway e pezzi di musica pop. Non capita tutti i giorni di incontrare una persona che ha al suo attivo 19 premi Grammy, due premi Emmy e oltre cinquanta milioni di album venduti. Insomma, una leggenda delle dimensioni di star della portata di Frank Sinatra, Dean Martin e Sammy Davis Jr.
L’incontro a tu-per-tu con Tony Bennett in una saletta privata di un grande albergo newyorkese si riveló essere una delle esperienze piú mortificanti e imbarazzanti nella mia carriera di giornalista. L’intervista era fissata per il tardo pomeriggio dopo una serie di altre interviste che Bennett avrebbe rilasciato a altre testate giornalistiche. Poco prima che venisse il mio turno era in corridoio in attesa. “È un po’ stanco”, mi aveva premunito la sua addetta stampa. “Meglio fargli domande facili e soprattutto che hanno a che vedere con gli anni d’oro della sua carriera.”
Non mi era stato chiaro perché fossero necessarie quelle precisazioni, soprattutto perché avevo passato parecchio tempo a prepararmi per l’intervista e avevo pronto un foglio con un corposo elenco di domande. “Comunque, non si preoccupi”, aveva aggiunto l’addetta stampa. “Tanto c’é anche la deliziosa Diane Krall che risponderá volentieri anche lei”.
Nulla mi avrebbe preparato per quello che avvenne nella mezz’ora successiva. Entrai nella saletta privata e strinsi la mano al grande Tony e all’affascinante Diana Krall.
“Signor Bennett, ero al suo mini concerto a Rockefeller ieri sera. Bravissimo, mi è piaciuto moltissimo”, avevo esordito facendo riferimento alle tre canzoni che lui e la jazzista Krall avevano cantato la sera prima nella storica Rainbow Room, in cima al grattacielo di Rockefeller Center.
“Grazie”, aveva risposto il cantante aprendosi in un sorriso caloroso.
“Mister Bennett, perché ritiene che il pubblico ami così tanto la musica jazz?”, gli avevo chiesto come prima domanda tanto per rompere il ghiaccio e avendo anche presente la richiesta di tenere la conversazione semplice.
“Perché é musica americana”, aveva risposto il cantante. Dopo di che c’era stata una pausa inaspettata dalla quale si capiva che non aveva altro da aggiungere.
“Intende dire perché é una forma musicale originale americana?”, lo avevo imbeccato in attesa che elaborasse la sua risposta.
“Si”, aveva aggiunto Bennett. Niente di piú. Silenzio.
“È un ritmo musicale che fa stare bene. È una musica straordinaria”, aveva detto la Krall cercando di riempire quell’assordante silenzio che si era venuto a creare giá nei primi trenta secondi dell’intervista.
Ero passato alla seconda domanda e poi alla terza, alla quarta ottenendo sempre brevissimi stralci di risposte. Avevo incominciato dunque a rivolgermi alla Krall perché il silenzio era mortificante. Allo stesso tempo non potevo ignorare lo straordinario divo che mi era seduto davanti. Ma ogni volta che mi rivolgevo a lui le parole erano poche e confuse con frasi incomplete. Spostavo allora gli occhi su Diana come per implorare il suo aiuto. Credo che lei stessa fosse disperata. Aveva un’espressione in volto di chi è provato dalla stanchezza della situazione. E cosí “l’intervista” era andava penosamente avanti per esattamente 11 minuti e 25 secondi — ho ancora la registrazione completa dell’incontro. Avevo a disposizione venti minuti ma prima ancora di esaurire il tempo che mi era stato concesso avevo messo fine all’intervista. “Ho finito le mie domande. Non ho altro da chiedere”, avevo detto celando a mala pena la frustrazione di quell’incontro. Delle due dozzine di domande che mi ero preparato ne avevo fatte meno della metá perché le altre avrebbero messo il grande Bennett in ulteriore difficoltá.

Lasciai la saletta privata un paio di minuti prima delle sei di sera. Ero furibondo, teso e stupefatto di quanto era appena successo. Ma sopratutto ero allarmato di come sarei mai riuscito a scrivere un articolo per La Repubblica sulla base di poche parole, frasi spezzate e lunghi silenzi. La mia fu l’ultima intervista di Bennett per promuovere il nuovo album. Quelle successive furono annullate all’ultimo istante.
Quel giorno a New York non avevo alcuna idea delle condizioni mentali di Bennett. Ci sono voluti un po’ piú di due anni per scoprire la veritá. Quel giorno di fine estate quando lo incontrai Bennett era giá affetto dal morbo di Alzheimer. Infatti da quanto rivela ora la famiglia la malattia era giá in fase avanzata. La diagnosi era venuta nel 2016 ma giá l’anno precedente il divo aveva dato segni di grave perdita di memoria.
In qualche modo ero riuscito a salvare l’intervista e pubblicare un articolo dal titolo scherzoso “Cosí, per Gershwin, ci siam fatti in duet”. Ero ricorso a uno stratagemma. Avevo costruito l’incontro come se Diana Krall fosse stata presente non solo in veste di interprete di un duetto, ma anche come una sorta di tenera nipote che interviene con dolcezza per finire le frasi del nonno smemorato. Ma quell’evento mi era rimasto impresso nella mente. L’entusiasmo di incontrare Tony Bennett si era scontrato con la realtá di incontrare, a mia insaputa, un malato di Alzheimer. Era ancora in grado di cantare, aveva la memoria di ricordare i versi dei suoi motivi musicali più classici ma era giá iniziata la fase che lo avrebbe portato a non riconoscere una forchetta o un mazzo di chiavi.
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