Le “Stanze italiane”, piattaforma web dell’Istituto Italiano di Cultura di New York diretto dall’italianista padovano Fabio Finotti, ospitano nella “Biblioteca”, a partire da mercoledì 29 settembre 2021, un nuovo interessante contenuto: un documentario realizzato in collaborazione con la Fondazione Rossini e il Rossini Opera Festival di Pesaro. Nel video, fruibile dalla comunità dei cultori della cultura italiana sparsi in tutto il mondo, si illustra l’edizione critica dell’opera Elisabetta regina d’Inghilterra di Gioacchino Rossini curata dal musicologo Vincenzo Borghetti dell’Università di Verona. Il dramma per musica in due atti su libretto di Giovanni Schmidt, fra le opere meno note eppure più innovative di Rossini, rappresentato per la prima volta al Teatro San Carlo di Napoli il 4 ottobre 1815 è andato in scena lo scorso agosto per il festival pesarese alla Vitrifrigo Arena di Pesaro diretta da Evelino Pidò, alla guida dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai e del Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno, con la regia di Davide Livermore. Lo spettacolo, ambientato nell’Inghilterra degli anni Cinquanta e ispirato alle atmosfere della serie TV The Crown, è stato coprodotto con la Fondazione Teatro Massimo di Palermo. Oltre al contributo del Professor Borghetti, il documentario contiene inoltre un’intervista inedita al sovrintendente del ROF Ernesto Palacio e alcuni contributi filmati che rimandano all’edizione 2021 del Rossini Opera Festival che presentano alcuni momenti salienti dell’opera. Il musicologo Vincenzo Borghetti illustra il suo contributo a La Voce di New York.

Professore, vuole chiarire l’utilità della critica testuale di un’opera, ai fini della sua fruizione contemporanea?
“La critica testuale permette di fare chiarezza sulle vicende testuali di un’opera (o di una composizione musicale in genere, o di un poema o di un romanzo, nel caso della letteratura), nel senso che permette di capire che cosa ha scritto o approvato un autore da quello che la tradizione ha poi fatto con il suo testo, quello cioè che è accaduto all’opera così come inizialmente concepita e realizzata, per esempio da Rossini, una volta che poi è entrata nel circuito dei teatri lirici. Opere che hanno avuto ampia fortuna e che sono entrate nel repertorio senza mai uscirne, pensiamo al Barbiere di Siviglia, sempre per restare a Rossini, hanno attraversato secoli, continenti, generazioni di interpreti e tutti i mutamenti culturali che hanno interessato questi lunghi archi temporali. Ciò significa che quanto si portava in scena (o si registrava sui dischi) sotto il nome di Barbiere di Siviglia poteva non corrispondere interamente a quello che l’autore aveva scritto. Un’edizione critica fa luce su tutto questo, e ci aiuta a capire che cosa appartiene a chi, quando e perché ci sono stati degli interventi sul dettato originario. Non per rifiutare la tradizione, ma per metterla in prospettiva, per comprenderne le origini e le ragioni. Un’edizione critica è uno strumento di comprensione, quindi di libertà di scelta da parte di chi poi quelle opere mette in scena”.
Nonostante si tratti di un’opera estremamente innovativa, è una fra le meno note del repertorio rossiniano. Come se lo spiega?
“Elisabetta regina d’Inghilterra è un’opera seria di Rossini e, come la gran parte delle opere serie di Rossini, è a un certo punto del XIX secolo uscita dal repertorio (l’ultima rappresentazione vivente l’autore documentata è del 1838; forse ce n’è solo un’altra nel 1841…). Pochissime sono le eccezioni, e riguardano le opere francesi, quindi quelle dell’ultimo periodo creativo dell’autore (Moïse et Pharaon, e soprattutto Guillaume Tell). In questo senso Elisabetta non è un caso eccezionale. Il Rossini Opera Festival ha avuto un ruolo fondamentale nel ritorno di molte di queste opere nella vita teatrale a partire dagli anni 1980. Elisabetta, però, è stata una delle ultime opere ad essere rappresentata in questo Festival, e questo in parte spiega perché la si sia vista così di rado. Non è comunque un titolo del tutto assente dai palcoscenici lirici: dagli anni 1990 in poi ci sono state rappresentazioni (o esecuzioni in forma di concerto) a Torino, Napoli, Buenos Aires, Pesaro, Bologna, Sassari, Bad Wildbad, Vienna, Amsterdam, Bruxelles, Luxembourg, Parigi”.
Quali sono le principali ragioni musicali per cui l’opera merita di essere riproposta e ripensata per il pubblico contemporaneo?
“La risposta più immediata è che è un’opera bellissima. È una risposta che le do come appassionato sfegatato di Rossini (e di quest’opera in particolare), non come studioso e curatore dell’edizione critica. In questa veste posso dire che è una delle opere meglio costruite dal punto di vista del ritmo drammatico. Una parte del merito va senz’altro al libretto di Giovanni Schmidt, che fornisce a Rossini un intreccio serrato, sul quale il compositore elabora una musica incalzante con effetti drammatico-musicali calibratissimi e di grande effetto. I numeri musicali sono costruiti e posizionati con risultati impressionanti. Penso per esempio al Finale del primo atto o al grande Terzetto all’inizio del secondo. Ma i tesori musicali e drammatici di quest’opera sono molti, e io forse sono la persona meno adatta per scegliere quali mettere in evidenza”.
Quali sono invece, dal punto di vista della trama, gli elementi di modernità di quest’opera?

“Per prima cosa, la sua caratteristica strutturale, cioè la linearità dell’intreccio. Poi un aspetto della costruzione dei personaggi e delle loro relazioni. Elisabetta in quest’opera è una regina, certo, ma è anche una donna, un essere umano con le sue passioni e le sue debolezze, come tutte e tutti noi. Elisabetta ama, odia, cerca la vendetta, ma poi è capace di guardarsi dentro e di perdonare, per il bene dei suoi sudditi. Il suo perdono non è solo frutto di un gesto di regale magnanimità, come era per sovrani operistici dell’antico regime, è invece il risultato di un processo di confronto diretto con i più deboli (nell’opera Leicester e ancora di più Matilde), e di comprensione nei confronti dei loro diritti umani (quello di essersi scelti e di amarsi, anche se al di fuori degli ordini di Elisabetta stessa, che avrebbe voluto lei sposare Leicester)”.
Ci vuole illustrare i contenuti del documentario presente nel portale “Stanze italiane”?
“Il documentario illustra in breve che cosa sia, a che cosa serva e come sia organizzata l’edizione critica di un’opera, perché sia oggi indispensabile realizzarne, quali siano gli arricchimenti per la cultura (non solo musicale) e per la vita teatrale di oggi di queste edizioni. Inoltre si sofferma sul significato di Elisabetta regina d’Inghilterra nel contesto della sua prima rappresentazione a Napoli nell’ottobre del 1815 (i Borboni erano appena tornati dopo il periodo napoleonico), così come della ripresa che ne fece lo stesso Rossini per una serie di rappresentazioni a Vienna nel 1822, e delle variazioni che introdusse in quest’occasione (a 7 anni dalla “prima” e in un contesto diverso, sia dal punto di vista geografico e ancor di più politico). Si parla poi del rapporto tra la Fondazione Rossini (che soprintende alle edizioni critiche delle opere) e del Rossini Opera Festival (che quelle edizioni critiche porta in scena), e di come musicologi e musicisti grazie a questo rapporto possano proficuamente collaborare”.
Ci vuol parlare dell’iniziativa del premio e della collana “Tesi rossiniane” che ha ideato in seno alla Fondazione Rossini?
“Si tratta di una collana che ha lo scopo di promuovere e sostenere la ricerca su Rossini, e più in generale sul contesto nel quale lui operava, sulla fortuna delle sue opere e così via. La collana è legata al premio “Tesi rossiniane” che ha scadenza biennale, e accoglie le tesi (di laurea, di dottorato) che in ogni edizioni risultano vincitrici. È un premio internazionale: il bando esce in italiano e in inglese; si accettano lavori in sei lingue (italiano, inglese, francese, tedesco, spagnolo e portoghese). Questa apertura internazionale ci sembrava opportuna, perché oggi la ricerca sull’opera (italiana e non) ha ormai confini amplissimi, tanto più poi per Rossini, che divenne prestissimo un fenomeno musicale mondiale. Nel 1824 Stendhal poteva iniziare la sua Vita di Rossini scrivendo che dopo Napoleone c’era un solo uomo di cui si parlava ovunque, da Mosca a Napoli, da Londra a Vienna, da Parigi a Calcutta, e questo era proprio Gioachino Rossini, che all’epoca non aveva ancora 32 anni”.

Ritiene che le opere di Rossini lascino aperte ancora molte possibilità di studio e approfondimento? Il celeberrimo compositore ha ancora tanti tesori da svelarci?
“Senza dubbio! Uno degli aspetti su cui la ricerca adesso si sta concentrando è, per esempio, la diffusione delle sue opere in contesti geografici finora meno indagati rispetto a quelli dell’Europa occidentale. Proprio la collana delle “Tesi rossiniane” ha di recente pubblicato lo studio di José Manuel Izquierdo König sulla diffusione e l’influenza della musica di Rossini nel Cile del XIX secolo (In Search of The Andean Rossini: The Music of José Bernardo Alzedo and Pedro Ximénez Abrill). Ogni epoca poi individua nuovi temi di ricerca, che adesso è impossibile prevedere: questo è il bello di lavorare con opere così ricche e complesse”.
Negli Stati Uniti, come in altri luoghi nel mondo, l’Opera italiana tiene alto il vessillo italico e attrae nel nostro Paese molti studenti e cultori del Belcanto. Secondo lei qual è la chiave dell’intramontabilità di un genere musicale che pur nasce in un preciso contesto culturale e sociale?
“La chiave è nella loro ricchezza e complessità. E nell’attenzione che ormai da secoli riserviamo a queste opere, che sostiene e alimenta il nostro interesse. Come accade con Dante, con Shakespeare, con Michelangelo, con Mozart, e con altre e altri “grandi”, che qui sarebbe troppo lungo menzionare singolarmente”.
Ritiene che, per mantenere vivo l’appeal presso le nuove generazioni, sia preferibile riproporre in veste tradizionale o contestualizzare, dal punto di vista dell’allestimento, le opere liriche italiane?
“Ritengo che sia indispensabile riproporle in modo intelligente. Uno spettacolo “tradizionale” (usando il termine in un’accezione corrente, che non è per nulla specifica) non è di per sé “rispettoso”, né da respingere in modo pregiudiziale; al rovescio uno spettacolo “innovativo” (di nuovo, termine anche questo problematico e non specifico, come “tradizionale”) non è di per sé “rivoluzionario” o pregiudizialmente un buono spettacolo. Ci sono buone/i registe/i e ce ne sono di non buone/i: con le/i prime/i le cose funzionano per tutti, compreso le giovani generazioni; con le/gli altre/i no”.