Ci sono film che al di là dell’interpretazione dei protagonisti, della regia, dell’abilità del montatore e dei tecnici, della solidità del copione, devono la loro riconoscibilità alla musica. “Exodus” di Otto Preminger, per esempio: bravissimi Eva Marie Saint, Paul Newman, Lee Cobb… Bravissimo Dalton Trumbo che ricava il copione dal romanzo di Leon Uris. Ma immagiate il film senza la trascinante ed epica musica composta da Ernest Gold… Non siete convinti? Bene, prendiamo allora “The Magnificient Seven”. La regia è di un vecchio, affidabile, lupo di Hollywood, John Sturges. Il cast è più che rispettabile: Yul Brinner, Eli Wallach, Steve McQueen, Charles Bronson, James Coburn, Robert Vaughn…Dato a ognuno il suo, immaginate lo stesso film privo della musica di Elmer Bernstein. Lo stesso discorso vale per “Amarcord” di Federico Fellini, genio puro che sapeva trasformare sogni in immagini; c’è uno sceneggiatore poeta straordinario: Tonino Guerra; ci sono il sapiente montaggio di Ruggero Mastroianni e la raffinata fotografia di Giuseppe Rotunno. Ma senza la melodia malinconica e struggente di Nino Rota? E’ lì, in quelle note “Amarcord”, oltre alle scene cult (Ciccio Ingrassia che invoca sull’albero una donna; Maria Antonietta Beluzzi, la “tabaccaia”; Magali Noel, la “Gradisca”).
La musica, Ennio Morricone. Ne ha composte almeno cinquecento, praticamente una vita tra le note (e non si citano le tante canzoni). Ognuna è parte integrante del film; non lo “accompagna”. E’ un ingrediente essenziale. Il regista poi deve essere intelligente, deve capire che non può e non deve interferire. Morricone è persona gentile, tranquilla, punte di tenera timidezza. Ma al tempo stesso rigoroso e meticoloso, a volte appare burbero.
Quale il metodo di lavoro lo ha spiegato una volta ospite del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Innanzitutto si deve realizzare una “natura miracolosa” che deve portare alla fusione tra cinema e musica: applicazione che deve avvenire “in maniera empirica”. L’obiettivo finale “concettualizzare i sentimenti, e sentimentalizzare i concetti”.
Detta così, sembra nulla… Poi c’è la chimica che si crea con il regista. A volte incomprensioni, come l’iniziale rifiuto a comporre per “Nuovo Cinema Paradiso” di Giuseppe Tornatore; il fastidio per quei registi che opprimono i compositori con i loro diktat. “Vizio” di tanti. Solo Pier Paolo Pasolini, al tempo di “Uccellacci e uccellini” ha l’accortezza di lasciargli carta bianca: “fai quello che vuoi”…
Agli studenti che fanno ressa, spiega la sua idea di “musica totale”:
“Una musica commissionata per il cinema deve essere grammaticalmente e sintatticamente corretta, un linguaggio che comunica con lo spettatore. La musica applicata alle immagini deve avere gli stessi valori che hanno le musiche dei grandi autori che le hanno composte, senza pensare necessariamente ad un film”.
Gli chiedono qual è il film che gli è più caro tra i tanti a cui si è applicato. Lo direste mai? Rivela che la pellicola a cui è maggiormente affezionato è un film del 1966 del regista Vittorio De Seta, “Un uomo a metà”. Un film che vale all’interprete Jacques Perrin la coppa Volpi, ma che viene accolto con freddezza e ferocemente stroncato. Perché proprio quel film? “Perché era un progetto che mi consentì di lavorare a musiche profondamente contemporanee e, al contempo, colme di dignità”.
In altre occasioni Morricone ha spiegato gli “inizi” della carriera: presso la scuola per compositori, e di essersi fatto le ossa grazie alla radio, dove si confrontava con arrangiamenti di musica leggera: ”Consideravo quel mestiere con una certa spocchia e una buona dose di superiorità, ritenendolo eccessivamente al servizio della melodia cantata. E così provavo a riscattarlo, introducendo negli arrangiamenti qualcosa che li rendesse autonomi rispetto al tema melodico”.
Racconta l’esperienza con Brian De Palma, regista de “The Untouchables”:
“Non sempre il compositore ha ragione; a volte l’intuizione giusta è quella del regista. Realizzai al pianoforte i temi di “Gli Intoccabili” in quarantott’ore a New York, quando vidi il film con De Palma. Tutto sembrava andar bene; prima di salutarci però mi fece notare che mancava ancora una traccia: l’ultima, quella del trionfo conclusivo dei detective. Cercai di convincere De Palma a sfuggire ai cliché, ma fu lui a spuntarla. Non si trattava solo della vittoria di Eliot Ness su Al Capone. Fu anche quella del regista sul compositore, perché, in quel caso specifico, in quell’inquadratura lunghissima che sale sulla strada, ci voleva una simile apoteosi”.
Ancora confidenze:
“Quando ero giovanissimo volevo fare il medico, avevo dieci-undici anni. Come medico, figuriamoci, avevo il medico dei figli di Mussolini; siccome era un grandissimo medico, si chiamava Ronchi, io da grande volevo diventare come Ronchi…Mio padre ha detto ‘no, tu devi studiare musica, e io ho obbedito, ho studiato musica. Ho cercato di inventarmi una maniera di scrivere musica melodica piena di pause, quasi con le parole, dei monosillabi, qualche volta tre sillabe insieme e poi una pausa lunga, come se fosse il ritorno di un pensiero, che ha momenti di stasi. Non sono un vero direttore di orchestra, non dirigo mai la musica di altri. Forse perché mi piace riascoltare le musiche mie, vedendo la reazione del pubblico; perché in genere la musica del cinema non si ascolta con chiarezza: c’è il dialogo, i rumori, ci sono altri effetti speciali che possono distrarre dall’ascolto…”.
Con una visibile punta di imbarazzo, spiega i problemi del suo lavoro:
“Cercare di realizzare una colonna sonora che piaccia sia al regista che al pubblico, ma che soprattutto piaccia anche a me, perché altrimenti non sono contento. Io devono essere contento prima del regista”.
Prima o poi tutti gli amanti del cinema si avventurano in quel nastro d’asfalto che è la “Walk of Fame” di Hollywood. Morricone è l’ottavo italiano ad aver ricevuto la “stella”. Lo hanno preceduto Anna Magnani, Sophia Loren, Rodolfo Valentino, i tenori Enrico Caruso e Andrea Bocelli, Arturo Toscanini e il regista Bernardo Bertolucci. Per non dire dei due Oscar, delle tante nomination, degli innumerevoli premi, dai tre Golden Globe, ai sei BAFTA Award, dagli otto Nastri d’Argento, ai sette David di Donatello, il Grammy Award, l’European Film Award, il Leone d’Oro, la Legione d’Onore.
Un aspetto poco noto, la sua sensibilità per i diritti civili e umani. Valga per tutti il trascinante “Here’s to You”, musica di Morricone, testo di Joan Baez, per il film “Sacco e Vanzetti” di Giuliano Montaldo. Senza volerlo tirare per la giacchetta, nel 1993, lui sempre così schivo e alieno da gesti roboanti, accetta l’invito-appello di Marco Pannella e si iscrive al Partito Radicale per aiutarlo a sollevarsi dalla crisi in cui si trova. Con lui Vittorio Gassman, Paolo Villaggio, Raffaele La Capria, Ilaria Occhini, Renzo Arbore, Mario Monicelli, Alberto Lattuada…
Anni dopo troviamo la sua firma in calce a un appello con Giorgio Albertazzi, Marco Bellocchio, Gianrico Carofiglio, don Luigi Ciotti, Giuseppe Di Federico, Dario Fo, Rita Levi Montalcini, Franca Rame, Stefano Rodotà, Paolo Villaggio. Chiedono che il presidente della Repubblica di allora, Giorgio Napolitano, faccia quanto è in suo potere (“un intervento incisivo e pubblico, esplicito, seguendo i canoni e i binari della Costituzione”), per risolvere l’annosa questione del sovraffollamento carcerario, e delle condizioni incivili in cui sono costretti a vivere non solo i detenuti ma l’intera comunità penitenziaria.
Anche nella vita, come nel lavoro, posizioni quiete ma ben radicate, “sussurrate” con pacatezza. Dice tutto quel suo estremo, lucido messaggio: “Non voglio disturbare nessuno”.
Anche chi, come noi, ha in uggia l’abitudine di tanti di battere le mani al passaggio di una bara, pur trattenendosi, fatica a non fare, questa, volta, un applauso. Ecco: facciamolo piano, di nascosto, senza esibirci. Ennio Morricone lo merita.