Il mandolino è probabilmente lo strumento che più rappresenta la musica italiana all’estero. Ma oltre che esserne rappresentante, spesso ne è anche stereotipo. Il quartetto pugliese Hathor Plectrum Quartet, unica formazione stabile nel suo genere in Puglia, si dedica alla riscoperta di questo strumento tipico della nostra tradizione sperimentando nuove sonorità e portandolo in giro per il mondo.
I quattro colleghi del Conservatorio barese, Antonio Schiavone (mandolino), Roberto Bascià (mandolino), Fulvio S. D’Abramo (mandòla) e Vito Mannarini (chitarra), si sono uniti nel 2010 per studiare ed eseguire il ricco repertorio originale per strumenti a plettro, dalle Sonate barocche alla musica moderna e contemporanea, dalla letteratura della cultura partenopea alle colonne sonore per film, imponendosi per l’originalità della ricerca musicale e presentando all’estero originali repertori che hanno fatto conoscere le numerose potenzialità dello strumento.
La Voce di New York ha intervistato Roberto Bascià, un componente del gruppo, che ci racconta delle sfide che il quartetto ha dovuto affrontare e dei suoi prossimi obiettivi – tra questi, una tappa negli Stati Uniti.
Come nasce l’Hathor Plectrum Quartet?
“Il nostro progetto nasce nel 2010 terminati gli studi presso il Conservatorio di Bari. Una volta diplomati, volevamo continuare a esplorare le potenzialità del mandolino, sdoganarlo dagli stereotipi e cimentarci in nuove sonorità”.
Come mai questo nome?
“L’abbiamo scelto perché il nostro ensemble è composto da due mandolini, mandòla e chitarra. Sono quattro strumenti a plettro che discendono del liuto, nato nella terra dove la dea propiziatrice della musica è Hathor”.
In base alla tua esperienza, quali sono gli stereotipi associati al mandolino?
“Gli stereotipi di cui parlo sono anche i pregiudizi che ho vissuto in prima persona quando ero piccolo. Il mandolino è indissolubilmente legato al repertorio napoletano, e di conseguenza anche a un certo pubblico. Una delle frasi più belle che sento spesso al termine dei nostri concerti è quando la gente dice: “Non me l’aspettavo che un mandolino potesse avere altre potenzialità”. Paragono spesso il mandolino a Sean Connery, un attore che rimane spesso incastrato in un ruolo come 007 pur avendo delle potenzialità enormi. Secondo me il mandolino ancora soffre di questo incasellamento, sebbene il repertorio napoletano ha il merito di avergli dato un respiro mondiale. Per esempio, durante una tournée in Argentina, gente del pubblico arrivò con i mandolini dei propri nonni, raccontandoci che con quello strumento il nonno aveva attraversato l’Oceano e durante la traversata aveva suonato quel mandolino ricordando i luoghi e le canzoni della propria terra natia”.

Quali sono i repertori che prevalentemente eseguite?
“Il repertorio napoletano per un po’ è stato il nostro cavallo di Troia, ovvero abbiamo eseguito molti brani napoletani, ma arricchendolo con colonne sonore di film come “Brucia la luna” di Nino Rota, brani tratti da altri repertori come l’ “Hallelujah” di Leonard Cohen, o un repertorio intero dedicato a Fabrizio De Andrè accompagnati da una voce, fino a una recente collaborazione con Antonella Ruggiero, per la quale abbiamo arrangiato molti dei suoi brani con i nostri strumenti accompagnandola nei suoi concerti e che abbiamo accompagnato in un brano presente nella sua ultima raccolta.

Come scegliete i vostri repertori?
“Quando andiamo all’estero sicuramente ci confrontiamo prima con gli artisti del posto, ci scambiamo le partiture e a volte capita anche che noi eseguiamo brani loro e loro brani nostri. Per esempio nel Turkmenistan e in Guatemala ci sono state collaborazioni con partiture molto diverse dai canoni grammaticali musicali italiani. Quando invece siamo soli, cerchiamo di portare un repertorio che sia il più eterogeneo possibile, spaziando da Vivaldi alle colonne sonore, alle tarantelle. Cerchiamo poi di impreziosire il nostro contributo raccontando aneddoti sul brano. Per esempio i brani napoletani sono intrisi di sentimento, e cerchiamo di trasmetterlo spiegando come quei sentimenti non siano cambiati rispetto a quando sono stati scritti”.

Avete viaggiato molto. C’è un viaggio che ricordi in particolare?
“Sono stati tutti viaggi bellissimi, ma la tappa più bella è sempre quella che verrà. Cerchiamo di portare nel mondo la tradizione del mandolino, e cerchiamo di far sentire quanto il mandolino abbia da dire. Poi è interessante scoprire cose nuove. Per esempio in Camerun abbiamo scoperto che “Funiculì funiculà” è la colonna sonora di una soap opera. Per in nostro decennale abbiamo intenzione di pubblicare un libro che racconta dei nostri viaggi a cui allegare un CD per presentare i brani della tradizione del Paese che ci ospita”.
Quali sono i repertori con cui vi siete confrontati all’estero e come vi hanno arricchito dal punto di vista artistico?
“Sono stati tantissimi, soprattutto nelle zone non occidentali. In Turkmenistan, per esempio, abbiamo fatto un concerto con l’orchestra di stato e abbiamo suonato un brano da 15 ottavi a 6 quarti, e questo per noi è stato abbastanza inusuale. È stato una sfida anche per quanto riguarda le combinazioni armoniche tra le note, perché il nostro orecchio occidentale è abituato ad alcuni percorsi logici che si aspetta che la musica faccia una volta cominciata”.

Quali sono i vostri prossimi progetti?
“New York è sicuramente il nostro grande cruccio, e gli Stati Uniti in genere, dove non siamo ancora stati ospitati. Ci piacerebbe molto incontrare il pubblico statunitense perché l’America del Nord ha una proposta musicale amplissima e pensiamo che sia decisamente un luogo in cui il mandolino può trovare il suo spazio e avere un buon riscontro. Abbiamo già ottenuto dei finanziamenti che ci sostengono per il viaggio, quindi speriamo di essere ospitati presto”.