Quando si incontra Mario Biondi è difficile non essere colpiti dal suo sguardo. È lo sguardo di una persona dedicata, in egual misura, alla sua musica, alla sua famiglia di otto figli, al suo pubblico, al suo gruppo di lavoro, ai suoi progetti. Mario Biondi è un cantante atipico nel panorama musicale. Non è il risultato di una operazione di marketing. Non è un fenomeno social. Non ha raggiunto la notorietà grazie alle trasgressioni vere o presunte cui ci ha abituato il moderno showbusiness.
Insomma: Mario Biondi non è un prodotto. È semplicemente se stesso, come ci confermerà durante questo incontro. La sua carriera comincia lontano nel tempo, tra la gente, ed oggi gli permette di sviluppare con il pubblico una particolare sensibilità, un istinto che rimane alla base della sua fortuna professionale. Appena dodicenne Mario canta nelle chiese, nelle piazze siciliane, in giro per l’Italia. Accompagna il padre, Giuseppe Ranno in arte Stefano Biondi. E sempre nel nome del padre, di cui prosegue gli insegnamenti di vita, il giovane Mario continua l’arte: ne riprende il cognome artistico e diventa Mario Biondi. Catanese, quarantasettenne, la famiglia sempre al suo fianco, canta preferibilmente in inglese, ma anche in italiano, francese e portoghese.
Una carriera impressionante: dodici dischi di platino, tre dischi d’oro, due partecipazioni a San Remo, tournée internazionali costantemente sold-out. Ricordiamo solo alcune delle sue collaborazioni artistiche: Ray Charles, Pino Daniele, gli Incognito, Renato Zero, Marcella Bella, Chaka Kahn, Al Jarreau, i Pooh, Earth Wind & Fire, Claudio Baglioni, ed infine, ultimo ma non ultimo: Burt Bacharach che per Mario Biondi ha appositamente scritto Something that was beautiful.
La attuale discografia di Mario Biondi contiene una ricchissima lista di canzoni già diventate evergreens e di cui segnaliamo solo alcuni titoli: This is what you are, A child runs free, Rio de Janeiro Blue, Never die, Shine on, What have you done to me, Deep Space, I love you more, After the love has gone, Light to the world, Sei come sei, Love is a temple, Rivederti, Can’t get enough, Lowdown. Artista sensibile alle persone in difficoltà, lo abbiamo incontrato in occasione di un concerto a favore della associazione benefica ATFA. Ma lasciamo spazio a Mario Biondi perché ci racconti la sua musica, le sue esperienze. E la sua vita: anche privata.
“A casa ho otto figli e cerco di mediare come comportarmi, che non è mai giusto per tutti. Mi hanno riferito che durante i miei concerti le persone riescono ad immergersi nella musica che è come una nuvola magica, dove tutto sembra essere perfetto. In effetti, anch’io stando sul palco spesso ho questa sensazione, che la musica ci porti in una dimensione fuori dal mondo”.
Che rapporto hai con i tuoi figli?
“Premetto: ho una famiglia allargata. Occuparmi del percorso di vita di ciascuno dei miei ragazzi è veramente impegnativo. Il primo ha già avuto delle esperienze artistiche: ha suonato la chitarra e la batteria. Comunque tutti sono appassionati di musica e con loro condivido quasi sempre quello che scrivo nel presente e ho scritto anche nel passato. Credo sia giusto che mi presenti ai miei figli nella interezza della mia personalità e del mio lavoro”.
Che tipo di musica ascoltate a casa?
“I miei ragazzi vanno dai ventidue ai due anni. Ogni fascia di età segue un differente tipo di musica. Il piu’ grande ascolta solo heavy metal, un’altra mia figlia segue il country-rock, altri ascoltano hip-hip, rithm & blues, il trap americano, che è un genere musicale derivato dal southern hip hop USA. I miei figli più piccoli invece ascoltano il cantante italiano Fedez, ma si stanno rapidamente avvicinando al genere trap e che un po’ mi preoccupa perché è pieno di slang e come genere espressivo insiste solo sui lati negativi della società. Comunque giudico senza pregiudizi la cultura adolescenziale: i miei otto figli mi impongono di comprenderla”.
Passiamo ai tuoi progetti: dopo il tuo album Brasil, uscito nel marzo di quest’anno, quali sono le tue collaborazioni musicali più recenti?
“Attualmente sono al lavoro con i Quintorigo, una band italiana di rock-jazz, con cui ho già prodotto un pezzo in inglese, I wanna be free. Credo che insieme ci divertiremo ancora tanto. Per il prossimo anno ho in programma una tournée in Australia: le vendite son già iniziate ed abbiamo avuto una buona risposta dal pubblico. Mi piacerebbe anche venire in America: non vedo l’ora. Ho alcune trattative in corso. In America ci sono stato da giovane. Ora mi piacerebbe ritornare. È un territorio immenso”.
A cosa c’è dietro al cantante Mario Biondi? Quale organizzazione gira attorno al tuo personaggio?
“Sono veramente tanti i collaboratori che seguono il mio lavoro, che fanno promozione per raggiungere territori che chiedono la mia presenza ma che non sono preparati a ricevermi. Oltre a quella musicale, la parte manageriale della mia attività è costituita da decine e decine di persone”.
Mario: sei sempre in concerto, hai una famiglia impegnativa, numerose collaborazioni internazionali: ma dove riesci a trovare degli spazi in cui creare, trovarti solo con te stesso, concentrarti?
“Finora non sono ancora riuscito a fare una session un cui mi possa trovare con tutto lo staff. Non dispongo di un castello, come facevano le pop star inglesi degli anni Settanta-Ottanta. Ricevo il mio gruppo di lavoro nella mia abitazione. È un ex convento gesuita del 1600: ha un suo fascino, la sua energia, e mi regala momenti di incredibile silenzio. Nel momento creativo mi piace suggerire consigli ai miei musicisti, che sono ben felici di sperimentarli. Per esempio: é nella mia abitazione che è nato il nuovo singolo I wanna be free. Questa composizione è una fusion di rock, di progressive, di pop, di rithm & blues, e riassume ciò che io penso della musica. Mi piace mescolare ogni genere di sonorità e poi attualizzarla. La mia produzione musicale riflette varie tendenze, senza rifarsi ad un particolare stile. Il risultato finale poi lo devo alla mia voce, ma anche ai musicisti che mi accompagnano. Sono dei veri professionisti, fedeli al proprio talento in qualsiasi produzione. Tutti i miei collaboratori musicali lavorano così”.
Come vivi le tue emozioni sul palco? percepisci la empatia che riesci a stabilire con il pubblico ? Ti emozioni?
“Tendenzialmente non sono uno che si impressiona durante gli spettacoli. Non mi esibisco con il pensiero che sto per mostrarmi ad un pubblico. Non ho mai avuto questo tipo di emozioni. Innanzitutto prima di salire sul palco mi libero da ogni pensiero. Indosso abiti di scena che non mi obbligano a continui aggiustamenti. L’emozione poi arriva nel momento in cui inizio a cantare, e la trasferisco nelle mie canzoni. Da quel momento può succedere di tutto. Mi abbandono alla melodia, alle note, senza limiti, in piena libertà, insieme al pubblico”.
Avverti di condividere le tue emozioni?
“Il contatto con gli spettatori per me resta essenziale. Sono molto ricettivo, ed empatico con il mio pubblico, ne condivido pienamente le sensazioni. A volte sento che è la musica a guidarci entrambi. La musica ha una sua energia. Mi sono accorto che questa relazione con il pubblico riesce a stabilirsi ovunque. Non importa se in Italia o all’estero. Per esempio, recentemente ho effettuato una serie di concerti in Gran Bretagna: ho girato in tutto il paese, partendo da Londra, per arrivare a Manchester, Glasgow e poi ad Edimburgo. Il pubblico inglese è uno dei più esplosivi tra quelli che ho incontrato in tutta la mia carriera. Questo tour mi ha dato una soddisfazione enorme, non riuscivo a crederci”.
Sorprende che pur essendo un personaggio pubblico tu riesca sempre a controllare le tue emozioni, il tuo messaggio musicale…
“Di base rimango una persona molto emotiva. Ma proprio perché ne sono cosciente, ho imparato a gestire le mie sensazioni. La emozione è un bene prezioso che non va sprecato. Mi padre mi ha insegnato ad essere una persona rispettabile e rispettata. A pormi sempre come uomo nei confronti degli altri uomini. Il suo insegnamento mi è stato di guida quando ho lavorato con grandi artisti, come ad esempio Al Jarreau. Ricordo anche Pino Daniele: gli confessavo di essere emozionatissimo. E Pino mi consolava: “E dai, smettela: nun fa’ cussì”. Ricordo anche la emozione che ho provato lavorando con Burt Bacharach, e con tutti gli altri grandi artisti con cui ho collaborato”.
Canti meglio in inglese o in italiano?
“Nessuno voleva farmi cantare in italiano. Quindi ho deciso: canto solo in inglese. E sono contento così. Figuratevi che il mio meccanico, che assolutamente non parla lingue straniere, mi dice che quando canto in italiano non si emoziona come quando canto in inglese. Ancora non sono riuscito a farmene una ragione. Che parli italiano o inglese, il timbro della mia voce rimane lo stesso”.
Tornerai a Sanremo?
“Per il momento non è nei miei programmi. Il Festival della canzone italiana di Sanremo è iniziato nel 1950 ma ormai è diventato una manifestazione fuori dal tempo. In tutti questi anni il mondo è cambiato. Ho partecipato a Sanremo solo due volte: la prima e l’ ultima”, ironizza Mario Biondi”.
Quale è la tua vera dimensione musicale, quella che ti piace di più?
“Confesso che mi sento a mio agio nelle esibizioni live. Conosco l’ambiente discografico perché mio padre mi portava in studio di registrazione quando ero ancora bambino: avevo appena sette anni. Incidere un disco è come un conservare un brano musicale. Spiace che il vinile ed anche i CD stiano andando in disuso. Ma ormai è lo streaming ad imporsi. Anche l’industria si adegua. Avete notato che le nuove automobili ormai hanno abolito il lettore per il compact disc ? C’è solo la presa usb. Io comunque colleziono anche vecchi impianti stereo dove ascolto la musica come piace a me, come si sentiva una volta”.