Non si ricordano specifiche opzioni o militanze politiche. Questo non vuol dire che fosse timoroso di assumere posizioni precise, per la preoccupazione di scontentare quella parte di pubblico più “benpensante e tradizionalista. Impegnato è sempre stato, per certe cause in cui ha creduto, si è battuto con coraggio e determinazione, nessuna paura di andare controcorrente. Per esempio, nel 1972, è protagonista di un qualcosa di eccezionale: la Francia di Georges Pompidou considera ancora l’omosessualità una malattia mentale; il codice penale la punisce come reato, lui, che omosessuale non era, scrive e canta: “Comme ils disent”.
Un testo coraggioso:
“J’habite seul avec maman /Dans un très vieil appartement rue Sarasate / ‘ai pour me tenir compagnie / ne tortue deux canaris et une chatte. / Pour laisser maman reposer / Très souvent je fais le marché et la cuisine / Je range, je lave et j’essuie, / A l’occasion je pique aussi à la machine. / Le travail ne me fait pas peur / Je suis un peu décorateur un peu styliste / Mais mon vrai métier c’est la nuit. / Que je l’exerce travesti, je suis artiste. / Jai un numéro très special /Qui finit en nu intégral après strip-tease/ Et dans la salle je vois que / Les mâles n’en croient pas leurs yeux. / Je suis un homo comme ils disent. / Vers les trois heures du matin / On va manger entre copains de tous les sexes / Dans un quelconque bar-tabac / Et là on s’en donne à cœur joie et sans complexe / On déballe…”.
Il suo “impegno”, quello che per lui significa “impegnarsi”, forse è ben condensato in questa frase: “Ci si dimentica sempre che gli agricoltori vivono della propria terra, e che in paesi che sono stati distrutti, la prima cosa è dare il pane ai contadini. Quest’anno voglio far comprare ciò che serve ai contadini armeni e che loro non possono acquistare da soli. L’associazione che ho fondato laggiù provvederà in tempo perché possano seminare il grano o altro. Ora posso farlo perché ho tempo. Lavoro molto meno di prima, faccio solo alcune cose, il resto del tempo lo dedico alla scrittura – scrivo moltissimo, sempre di più – e mi occupo di questa associazione che sostengo”.
Charles Aznavour nasce a Parigi il 22 maggio 1924; in realtà il suo vero nome è una specie di scioglilingua: Chahnourh Varinag Aznavourian. Il padre, Micha, immigrato armeno originario della Georgia (quando ancora si chiamava Akhaltsikhe), è cuoco del governatore d’Armenia; la mamma, Knar Baghdassarian, è anche lei un’immigrata armena: originaria di Smirne, nell’odierna Turchia, figlia di benestanti commercianti; è sopravvissuta al tremendo genocidio armeno posto in essere dai turchi.
Per Aznavour l’Armenia è qualcosa di scolpito nel cuore; rivendica con orgoglio le sue origini, si batte per la sua gente, senza animosità: “Non sono nemico dei turchi. Chiedo solo che sia riconosciuta la verità”.
Nel 1989, scrive il testo di “Pour toi Armenie” (musica di Georges Garvarentz), (“For you Armenia” versione americana), canzone incisa a scopo umanitario per i bambini Armeni:
“Poussera l’arbre de vie/Pour toi Arménie/Tes saisons / chanteront encore / Tes enfant bâtiront plus fort / Après l’horreur / Après la peur / Dieu soignera ton sol meurtri / Pour toi Arménie. /Le monde s’est levé / Le monde est avec toi / Pour toi peuple oublié / Il a ouvert son coeur / Il a tendu ses bras / Et même si tu maudis ton sort/
Dans tes yeux je veux voir/ Arménie Une lueur d’espoir / Une flamme, une envie / De prendre ton destin / Entre tes mains / A bras le corps…”.
Definito il “Frank Sinatra francese”, Aznavour è uno dei grandi della musica francese. Con lui Yves Montand, Gilbert Becaud, Serge Reggiani e Jacques Brel, che era belga, ma fa nulla, mettiamoci lui pure sotto la Tour Eiffel… L’ultimo, di una generazione che non ha eredi.
Deve molto alla mitica Edith Piaf. Forse Aznavour sarebbe comunque diventato quello che è diventato; ma è lei che lo scopre, intuisce le sue enormi potenzialità, lo “lancia”. Lo ammette senza reticenze: “Le devo molto: la conobbi durante uno show radiofonico nel 1946. Rimasi con lei per otto anni. Ma eravamo solo amici. Mai amanti. Sono stato il suo segretario, il suo autista, il suo confidente. Mi portò con lei in tour. Aveva un senso dell’umorismo davvero perfido. Era molto arguta. Ricordo che una volta andammo in America, tutti ci dicevano che avremmo dovuto vedere le Cascate del Niagara. Così andammo. Una volta lì, scese dalla macchina, le guardò e ci disse: ‘Tutto qui? È solo acqua che scorre!’. Tornammo subito indietro. Questa era Edith Piaf”.

Consapevole della sua grandezza e del suo talento, ama minimizzare il suo lavoro, la sua “arte”. Ha scritto più di 1.200 canzoni, le canta e le scrive in sette lingue diverse; quando le elenca, viene fuori che parla francese, italiano, inglese, tedesco, spagnolo, russo. Sono sei, non sette…, potreste obiettare. “La settima”, vi risponderà, “è il napoletano…”. Ecco, ora il conto torna. Con un vezzo ama aggiungere: “Sono un artigiano”.
L’“artigiano” nel corso della sua carriera vende qualcosa come duecentomila dischi nel mondo. Niente male per uno che quando comincia la carriera si sente pronosticare che forse meglio farebbe a dedicarsi ad altro, perché gli manca proprio il physique du role: non e’ esattamente un bell’uomo, piccolo di statura, una manciata di franchi in tasca. E anche quella voce… “Ruvida, cavernosa”, sentenzia più di un impresario… Poi, come s’è visto, arriva la Piaf, che sa prendere il cuore di chi l’ascolta, ha occhio e orecchi fini, “vede” quello che gli altri si limitano a guardare; e lo porta con sé in tournée in Francia, negli Stati Uniti, in Canada…
Gli inizi: genitori comprensivi, lo incoraggiano e lo assecondano. È anche fortunato. Incontra il drammaturgo Jean Cocteau: “Tutto quello che conosco l’ho imparato da solo. Mi ha dato una lista di libri da leggere. Il mio processo di apprendimento più accademico: arte, musica, letteratura… Da sempre volevo fare l’attore, adoravo cantare, ballare, recitare. I miei sono stati fantastici, mi hanno sempre incoraggiato, solo ricordandomi che avere successo come artista non è semplice”.
Nel 1956: si esibisce in quell tempio della music ache è l’Olympia; la sua “Sur ma vie”, per quattro settimane consecutive è in vetta alla classifica dei dischi più venduti. Successi a ripetizione: “Tu t’laisses aller”, “Il Faut Savoir”, “La mamma”, “Et Pourtant”, “For Me Formidable”, “Que c’est triste Venise”, “La Boheme”, “Désormais”…
Per lo più le canzoni di Aznavour parlano d’amore, linguaggio universal; e grazie al suo essere poliglotta si esibisce sui palcoscenici di tutto il mondo. Canta alla Carnegie Hall e in tutti i maggiori teatri, duettando con star internazionali, da Nana Mouskouri a Liza Minnelli; da Celin Dion a Laura Pausini.
Canzoni, e tanto cinema, una sessantina di film; con registi del calibro di Francois Truffaut (“Tirate sul pianista”), Henri Verneuil (“I leoni scatenati”), Rene Clair (“Le Quattro verità”), Elio Petri (“Alta infedelta’”), Claude Chabrol (“Pazzi borghesi”, “Il fantasma del cappellaio”), Claude Lelouch (“Viva la vita”)…
Ci è riuscito. E ora, che anche lui se n’è andato non resta che ascoltarlo, magari in un vecchio LP che gracchia, e lui che ci dice:
“…Perdonatemi se, con nessuno di voi, / non ho niente in comune / io sono un istrione a cui la scena dà / la giusta dimensione…”.
Ha detto: “Voglio morire da vivo”. Ci è riuscito.