L’ultima volta che mi sono imbattuta in Johann Sebastian Bach ero una ragazzina di 10 anni, e mia mamma aveva deciso di iscrivermi a un corso di pianoforte. Già lo aveva fatto con mia sorella, 5 anni più grande di me e infinitamente più talentuosa della sottoscritta quando si parla di musica. Io, per quel che mi riguarda, un sogno segreto ce l’avevo: mi vedevo suonare la batteria in un gruppo rock, con le unghie rigorosamente nere corvine, e infiammare gli animi degli scatenati spettatori. Perciò, quando la mia famiglia, sinceramente desiderosa di aprirmi la stessa opportunità che mia sorella aveva saputo cogliere e apprezzare, mi spinse a iniziare quel corso di pianoforte, iniziai a inanellare una lunga serie di mal di pancia e angosce man mano che si avvicinava il momento fatidico della lezione settimanale. I mal di pancia aumentarono quando, oltre al solfeggio e alla “Tartina di Burro” (un brano incredibile di Mozart che si suona strisciando, letteralmente, l’unghia del pollice avanti e indietro lungo alcune ottave del pianoforte – il dolore fisico alle dita è ancora impresso nella mia memoria -), cominciai a esercitarmi su “Il mio primo Bach”. Per carità, non che i motivetti non fossero orecchiabili: ma, per una che voleva diventare una batterista rock, forse, quegli armoniosi esercizi di coordinazione delle dita su cui passare ore e ore a esercitarsi non erano proprio l’ideale.
Così, quando martedì sera mi sono ritrovata immersa nella maestosa cornice newyorkese della Carnegie Hall, per assistere alla “Mass in B minor” (“Messa in SI minore”) di Bach suonata e cantata dalla New York Choral Society and Orchestra, per un attimo mi sono passati davanti agli occhi 15 e più anni di vita. Sì, perché poi, a differenza di mia sorella, la musica classica l’ho abbandonata (alla fine, lo ammetto, non ho neppure fatto la batterista), mentre lei, Federica, si esibisce oggi proprio nella New York Choral Society, forte del suo lungo e sudato background musicale. Nonostante i miei poco felici trascorsi con Bach e simili, l’occasione era da non mancare: perché quella “vibrante comunità musicale” (così si definiscono nel loro sito), fondata nel 1959 e dal 2012 sotto l’illuminata direzione artistica del direttore musicale David Hayes, è molto nota nella Grande Mela per l’indiscutibile qualità artistica delle sue performance, che si tratti di mettere in scena capolavori della storia della musica o nuove composizioni. Non a caso, con i suoi talentuosi 170 membri (dalle qualità musicali professionistiche, ma tutti rigorosamente volontari) si è esibita non solo alla Carnegie Hall, ma anche in moltissimi altri templi della musica, tra cui la Metropolitan Opera House, la David Geffen Hall, il David H. Koch Theater, il Madison Square Garden, il NJPAC e la St. Patrick Cathedral. Dal 2012 ad oggi, Hayes, già direttore musicale dell’acclamata ensemble vocale The Philadelphia Singers e ancora direttore musicale della Mannes Orchestra e Staff Conductor della Curtis Symphony Orchestra, ha forgiato la Choral Society senza mai volerla cambiare, ma affinando il suo profilo artistico, e preparandola a sfide sempre più prestigiose ed elettrizzanti.
Ma che cos’è la “Messa in SI minore” di Bach? Si tratta di un programma musicale religioso completato dall’illustre musicista nel 1748, che assembla parti individuali già composte precedentemente. Non si sa bene, peraltro, perché Bach, da devoto luterano quale era, decise di lavorare con tale ardore a una Messa conforme alla liturgia romana cattolica, ma tant’è: è esattamente quello che fece. E non si può dire che si risparmiò, nel farlo: perché l’opera riassume, idealizza e scandisce l’intero ciclo di vita di una composizione sacra. Poi certo: la Messa di Bach non si usa, generalmente, nella celebrazione cristiana, per via di alcune differenze terminologiche rispetto alla versione cattolica ortodossa, ma anche perché il suo lavoro è talmente grandioso, composito e virtuosistico, che non sarebbe mai applicabile a una vera e propria celebrazione. A meno di non trattenere i fedeli in Chiesa per diverse ore, s’intende.
Dal canto mio, ciò che più mi preoccupava prima di assistere alla performance era l’eventualità di non capire. Non capire la grandezza, la bellezza, non riuscire a coglierla nell’ascoltare sonorità che il mio orecchio – ben più avezzo a una musicalità moderna e meno impegnativa – fatica a trattenere e a “processare”. Temevo, insomma, di ritrovarmi nella stessa situazione di un analfabeta davanti a un libro scritto fitto fitto: che sì, può essere anche il libro più meraviglioso dell’universo, ma se non lo sai leggere come puoi apprezzarlo? Tutti timori, lo ammetto, pesantemente condizionati dalla “Tartina di Burro”, dal solfeggio, da “Il Mio Primo Bach” e da tutto il mio non felicissimo background classico. Ma poi, quando ho iniziato ad ascoltare, ho scoperto che, anche con sguardo e orecchio vergine, tutte le paure si dissolvono in un momento. E lì, inizia lo spettacolo.
Uno spettacolo barocco, certo – altrimenti non sarebbe Bach -, ma di Musica con la “M” maiuscola. Un tripudio di note, in cui le voci del Coro – la cui performance è stata grandiosa, apprezzata dalla sala con scroscianti applausi finali – entravano in perfetta armonia con gli strumenti, per poi concedere il palco alle melodiose voci dei solisti: il soprano Sarah Shafer, il soprano Abigail Fischer, il tenore James Reese e il baritono Lee Poulis. Ci vorrebbe un vero potere sinestetico per tradurre in parole ciò che ho sentito e ascoltato. Di certo, la performance mi ha comunicato un senso di maestosità, ma anche di fatica fisica: perché, ho immaginato, per tutti i cantanti e i musicisti, mettere in scena un programma simile sarà stato un po’ come scalare l’Everest della musica. L’obiettivo, in effetti, era di quelli estremamente difficili da realizzare: far giungere, all’orecchio dell’ascoltatore, un suono maestoso sì, ma pulito, coordinato, armonioso, naturale, nonostante l’ardita difficoltà della performance e il barocchismo che la domina. Togliere la fatica, e lasciare l’Arte. Obiettivo pienamente centrato.
C’è un’altra cosa che mi ha, però, colpita: il fatto che, su quel palco, la musica non la si poteva solo sentire, ma anche vedere. Ho visto la musica osservando David Hayes dirigere il Coro, seguendo la sua gestualità che, in un battibaleno, diventava da delicata a energica, da tetra a gioiosa, da chiusa ad aperta, da tenue a grandiosa. E le voci del coro, e i suoni degli strumenti, si fondevano in perfetta armonia con la direzione musicale. Pochi giorni prima della performance, Hayes, in un’intervista, aveva spiegato così la sua filosofia: “Non ho voluto cambiare il coro, ma sono implacabile su certe cose – e sono abbastanza sicuro che questa sarebbe la parola che i membri del coro userebbero. Sono implacabile nella ricerca del ritmo serrato; sul fatto che tutto sia precisamente al proprio posto; che l’intonazione sia ben curata. Voglio che queste cose siano parte del loro DNA e di quello che pensano del modo in cui producono il suono. Tutto ciò dovrebbe andare di pari passo con il perseguimento delle qualità espressive di ciò che stiamo cantando. Non penso che l’una o l’altra cosa funzionino da sole: devono esserci entrambe”. Beh, quell’implacabilità ha decisamente funzionato. Anche per una, come me, che con Bach e solfeggio non è mai andata troppo a braccetto.