Peter Gene Hernandez, vero nome di Bruno Mars è uno degli artisti dei nostri tempi più rispettati trasversalmente da pubblico e grande critica. Possiamo quindi parlare di un trionfo piuttosto annunciato (come quello di Adele, nel 2017) per il poliedrico vocalist e producer dai più considerato l’erede naturale di Michael Jackson e che prima di questa edizione aveva già portato a casa undici statuette.
Il trentaduenne nato alle Hawaii, grazie al successo di “24K Magic” (uscito peraltro nel 2016 a ridosso delle nomination del 2017) può aggiungere alla sua collezione personale altri sei Grammys (sulle sei nomination conquistate a fine novembre): miglior album, registrazione dell’anno e album R&B per l’acclamatissimo disco in questione, e poi migliore canzone dell’anno, migliore canzone R&B e migliore performance R&B, grazie alla hit “That’s What I Like”, scritta in collaborazione con Christopher Brody Brown, James Fauntleroy, Philip Lawrence, Bruno Mars, Ray Charles McCullough II, Jeremy Reeves, Ray Romulus and Jonathan Yip.
Sono altrettanto prestigiosi i Grammys conquistati da un artista che fino a qualche anno fa sarebbe stato considerato poco commestibile per le masse, non solo per la profondità dei suoi testi, ma anche per le sue atmosfere e le sonorità, a tratti oscure, elusive e poco in linea con le trame trap e reggaeton della musica black più in voga in questi anni. Kendrick Lamar, a soli trent’anni, è diventata una delle icone più rappresentative degli USA. Piace a un pubblico che va da Barack Obama ai teenager, e anche in un album più intimo e personale come “DAMN.” continua a raccontare, anche grazie ai suoi video sempre scioccanti, con una lucidità rara questa America fatta di conflitti e contraddizioni mai così aspri come da mezzo secolo a questa parte Kendrick Lamar ha stupito nuovamente tutti, grazie al complesso e ricercato capolavoro , uscito, questo sì, nel 2017 e ha portato a casa cinque riconoscimenti: miglior album rap, migliore canzone, interpretazione rap e video con il singolo “HUMBLE.” e migliore collaborazione con un artista rap, per “LOYALTY.” dove ospita, alla voce, Rihanna.
È rimasto, invece, clamorosamente a bocca asciutta Jay Z, nonostante le otto nomination conquistate con merito grazie all’ottimo album in studio 4:44.
Nella cerimonia presentata per la seconda volta da James Corden, non sono mancati momenti più politicizzati, con il movimento #MeToo come filo conduttore di molti discorsi e performance, e addirittura di un outfit, quello della talentuosa songwriter neozelandese Lorde (già di recente al centro di polemiche infuocate dopo aver cancellato il suo tour in Israele) che aveva la trascrizione di un saggio femminista sul suo abito rosso. Unica donna nominata per il miglior album dell’anno, ha ceduto anche lei davanti al trionfo di Bruno Mars, mentre la canadese di origine italiana, Alessia Cara, già nota al grande pubblico grazie a diversi singoli e collaborazioni, è stata premiata come migliore nuova artista, nonostante sfidanti molto più accreditati per la vittoria (SZA che vi abbiamo presentato anticipando i tempi qualche tempo fa qui Lil Uzi Vert, Khalid e Julia Michaels). La splendida Janelle Monáe ha regalato un’agguerrita ed elegante chiamata alle armi rivolta all’universo femminile, Kesha ha emozionato con “Praying”, accompagnata da altre icone musicali, tutte donne, da Cindy Lauper a Julia Michaels, passando per Andra Day e Camila Cabello, giovane popstar di origini cubano-messicane nata a L’Avana, che nel suo discorso si è rivolta alla generazione dei “dreamer”, minacciata dalle politiche sull’immigrazione di Donald Trump.
Il presidente è stato, inevitabilmente, oggetto di un video sketch, aspramente criticato in un tweet da una fan illustre dei Grammy come l’ambasciatore USA alle Nazioni Unite Nikky Haley. La promessa del rap Cardi B, il re-mida delle produzioni DJ Khaled, e poi ancora Cher, Snoop Dogg, John Legend hanno letto degli estratti del chiacchieratissimo libro di Michael Wolff, “Fire and Fury”. Con loro una divertita Hillary Clinton ha preso parte a questo inedito reading che farà molto discutere in queste ore. Così come il botta e risposta tra Jay Z e Donald Trump, a poche ore dall’inizio della cerimonia, incentrato sulla questione delle “shithole country”, poi riportata sul palco dagli U2 che hanno aperto lo show del Madison Square Garden.
https://youtu.be/XhR9Ud2qz1c
Tra gli altri riconoscimenti, non possiamo che menzionare quello di “miglior album rock” conquistato da una delle band di cui vi abbiamo parlato sulla rubrica Prima Fermata Brooklyn molti anni prima della loro esplosione , The War On Drugs, il progetto folk-rock psichedelico di Adam Granduciel che, con “A Deeper Understanding” si è accomodato su sonorità più radiofoniche e adulte figlie di Bruce Springsteen. Due band simbolo della scena di Brooklyn degli Anni Zero hanno conquistato altri due riconoscimenti di genere piuttosto autorevoli e che danno finalmente un tributo a quella scena indipendente che lo scorso decennio aveva riportato New York al centro della scena internazionale: The National per miglior album alternative con “Sleep Well Beast” e gli LCD Soundsystem come miglior album dance, con “american dream”.
E ciò assume un valore vagamente simbolico e nostalgico con i Grammy che tornano dopo quindici anni nel cuore della Grande Mela, in una New York diversa da quella del 2003 post-Undici Settembre, ma ancora scossa dalla scioccante vittoria presidenziale di uno dei suoi cittadini più noti e discussi.