Classe 1991, nato a Santarcangelo di Romagna, Federico Braschi, in arte Braschi, è stato scelto fra gli otto vincitori del concorso Area Sanremo per presentare il suo brano Nel mare ci sono i coccodrilli sul palco dell’Ariston nella sezione Nuove Proposte. Nonostante la sua giovane età, il cantautore romagnalo ha diverse esperienze importanti alle spalle, tra cui alcune collaborazioni internazionali con i Calexico e il produttore e musicista JD Foster (lo stesso di Vinicio Capossela). La sua musica l’ha portato all’estero pensando che quella fosse l’unica soluzione possibile, per poi rendersi conto di voler ripartire proprio dall’Italia.
Braschi è tornato a New York per girare il videoclip della canzone con cui sarà in gara al Festival, contenuto nell’album Trasparente, presentato in anteprima alla Casa Italiana NYU lo scorso 1 febbraio. Noi de La Voce l’abbiamo intervistato a Brooklyn, nel ristorante Antica Pesa di Williamsburg, dove ha presentato il brano e duettato con JD Foster.
Il brano che porterai a Sanremo, Nel mare ci sono I coccodrilli, porta lo stesso titolo di un romanzo di Fabio Geda, che parla di un bambino afghano in fuga verso l’Occidente per salvarsi da un futuro fatto di violenza e schiavitù. Come mai ti sei ispirato proprio a quest’opera e che significato ha per te?

“La citazione del romanzo è stata voluta per dare uno sfondo alla canzone. Volevo parlare delle traversate di quelle migliaia di persone che ogni giorno vanno incontro al proprio destino a bordo di barconi o gommoni. Volevo trattare questo argomento, facendolo da un’angolazione meno convenzionale, cercando una chiave diversa”.
Tra pochi giorni sarai sul palco dell’Ariston. Che emozioni provi al momento?
“Le emozioni sono tante, ma immagino di chiudermi in una gabbia insonorizzata e allontanarmi dal resto del mondo, altrimenti queste sarebbero settimane davvero invivibili. L’unica tecnica che ho utilizzato è proprio questa”.
Qual è stato il tuo percorso pre-Sanremo? Hai mai partecipato ai casting per un talent?
“La mia storia è come quella di tutti. Ho iniziato a suonare ai tempi delle scuole medie nelle cantine con la mia band. Non ho mai partecipato ai casting per un talent perché fondamentalmente non credo nella competizione. Specialmente nel campo della musica, che non vivo come un mors tua, vita mea. Arrivare a Sanremo era il mio obiettivo e ce l’ho fatta. Anche sul palco dell’Ariston, l’aspetto competitivo è quello che mi interessa di meno”.
Secondo te il Festival di Sanremo è realmente ancora una vetrina e un punto d’arrivo importante per giovani artisti della tua età? Quando canterai su quel palcoscenico, penserai a qualche artista in particolare che l’ha calcato prima di te?
“Assolutamente sì. Volente o nolente è da lì che si sono fatti strada molti degli artisti che ascoltiamo ancora oggi in Italia ed è il traguardo più alto a cui un cantante o un cantautore può aspirare. Trovandomi su quel palco, per il genere musicale al quale mi ispiro, mi verrà da pensare a Luigi Tenco e alla sua storia”.
Hai dei punti di riferimento nel panorama del cantautorato italiano? E in quello musicale americano?

“Sì, assolutamente. Mi piacciono quei cantanti che utilizzano la parola come strumento per trasmettere messaggi importanti. I miei punti di riferimento sono senza dubbio Fabrizio De André e Francesco De Gregori. Per quanto riguarda gli artisti statunitensi, Bruce Springsteen, Bob Dylan, Tom Waits e Lou Reed sono tra i miei preferiti”.
Ora sei qui a New York, dove hai girato il videoclip di Nel mare ci sono i coccodrilli. Come mai hai deciso di fare qui le riprese? Puoi darci qualche anticipazione?
“Il video parte da una mia idea ed è stato girato tra Manhattan, Brooklyn e il Queens. La storia che ho scritto parla di casualità, di un lato della medaglia piuttosto che un altro, di quanto mi ritenga fortunato a essere nato sotto un raggio di sole e non sotto un tetto sventrato. Quindi lo scopo è stato fotografare non solo me che canto, ma anche il mendicante di Union Square o il business man del World Trade Center, cosa che in questo periodo storico assume un significato maggiore. Per la scelta della location, il filo conduttore tra l’Italia e l’America è stato il mio manager, Roberto Mancinelli, che ha lavorato qui negli ultimi anni. Ad ogni modo, il mio rapporto con gli Stati Uniti è iniziato qualche anno fa, quando a 17 anni ho inciso qui uno dei miei primi dischi, in un periodo in cui la gente mi diceva di andare oltreoceano perché la musica nel nostro paese stava finendo. Poi ho deciso di tornare indietro e ripartire da capo in Italia”.
È la tua prima volta nella Grande Mela?
“Sono stato già diverse volte a New York e la cosa che mi piace e che odio al tempo stesso di questa città è che ogni giorno è diverso da quello precedente. Bisogna reinventarsi quotidianamente e partire da zero. Questo credo sia un po’ l’aspetto negativo: non avere certezze, non dare mai niente per scontato”.
Tra i tuoi ultimi lavori c’è anche un EP realizzato con i Calexico. Com’è nata questa collaborazione?

“Ero loro fan da tempo e ascoltavo i loro dischi cercando di scimmiottare il loro sound. In particolare ho apprezzato quelli prodotti da JD Foster, di cui sono diventato amico e che ha fatto da trait d’union tra me e loro per questa bellissima esperienza”.
Definiresti la tua musica indie-rock?
“Fondamentalmente penso che l’indie-rock non esista e che non abbia alcun significato pratico. A mio avviso, le band di grido dell’indie perdono questa loro connotazione proprio nel momento in cui vanno a chiedere soldi alla Sony, alla Warner o alla Universal. La musica si fa nel modo più onesto possibile e io cerco di fare lo stesso”.
Cantare qui negli USA rientra nei i tuoi progetti futuri?
“Dopo Sanremo ci sarà l’uscita dell’album, il 10 febbraio, e un tour in Italia che spero duri il più a lungo possibile. Poi in primavera-estate dovrei essere di nuovo qui”.