In un paese come l’Italia, fortemente permeato dalla cultura americana, non sorprende trovare artisti che facciano riferimento alla cultura popolare d’oltreoceano. L’opposto, invece, si vede raramente. Simon Hanes, frontman dei Tredici Bacci, è quel tipo di rarità. Nonostante non abbia alcun legame biografico con l’Italia, sin da giovanissmo, Hanes è sempre stato affascinato dalla cultura pop italiana degli anni ’60 e ’70 e in particolare dai film di quegli anni e dalle loro colonne sonore.
Diplomato al New England Conservatory, Hanes si è trasferito per la prima volta a New York nel 2014, per poi ritornare per un breve periodo a Boston (una scelta che definisce “terribile”) e infine stabilirsi a Bushwick, dove inizialmente ha vissuto nel retro di un negozio (“roba da matti”, dice). Lì, ha riunito il suo gruppo pop italiano composto da 13 membri, alcuni dei quali musicisti con cui aveva già suonato durante gli anni di scuola.
Consumatore vorace di B-movies italiani, spaghetti western e capolavori di Fellini, ammiratore appassionato di Ennio Morricone, Nino Rota e di Armando Trovajoli, Hanes riesce a citare Edwige Fenech e Carlo Gesualdo nella stessa frase. Per sua stessa ammissione, non ha idea di cosa stia facendo quando nei suoi lavori include citazioni della cultura italiana. Ma sembra invece che sappia il fatto suo quando si parla di musica.
Hanes ha iniziato a suonare il basso a soli nove anni e a 14 si era già innamorato della colonna sonora del film di Fellini, Gulietta degli spiriti, composta da Nino Rota. Paragona l’ascolto di Morricone all’ammirare la galassia. Piange ogni volta che ascolta la colonna sonora di Metti una sera a cena.
La sua ultima creazione è un personaggio chiamato Luxardo (sì, proprio come il liquore), un eccentrico cantante italiano degli anni Settanta a capo di una band composta da 13 musicisti chiamata Tredici Bacci. La band, che è stata inclusa da Rolling Stone nella lista dei “10 nuovi artisti da conoscere” nel novembre del 2016, ha appena pubblicato Amore per tutti e si esibirà al The Stone di Alphabet City, dal 3 al 5 febbraio.
Ho incontrato Simon Hanes in una fredda domenica mattina, da Lella Alimentari, un locale romagnolo di Williamsburg, immancabile sulla mappa di ogni amante dell’Italia della zona. Per più di un’ora, abbiamo parlato davanti a un caffè: cappuccino per lui, americano per me.
Quando hai creato il progetto Tredici Bacci?
“Nel 2015”.
Come è nata l’idea del nome? E lo sai che è scritto male?
“Ah, sì [ride]. Inizialmente l’idea era: 13 membri del gruppo, 13 baci. Ora ci sono 13 componenti più uno, io, per cui è Luxardo e i Tredici Bacci. Il fatto che sia scritto in modo sbagliato è semplicemente capitato. Credo che ad un certo punto ho tradotto con Google ‘kisses’ ed è uscito con due C”.
Allora è colpa di Google!
“Sì, [ride] è colpa di Google”.
Ti ricordi il momento in cui ti sei accorto che era scritto male? Chi te lo ha fatto notare?
“Penso fosse durante una sessione di registrazione. È stato qualcuno più vecchio e più intelligente di me che me lo ha fatto notare. E ho pensato: lo cambio? Ma poi, ho visualizzato il modo in cui è scritto e.. ha un certo non so che. Con una C sola, baci, è più debole, non è la stessa cosa. Ed è anche un omaggio al fatto che non ho idea di cosa stia facendo [ride]”.
Hai creato diversi personaggi per i tuoi diversi progetti. Sono musicisti diversi, diverse versioni di te?
“Per un periodo interpretavo questo personaggio di nome Combman che indossava un costume coperto di pettini ed era ossessionato dai capelli. Un altro si chiamava Christopher Douglas, era un cantautore di Boston. Credo di aver iniziato a vederli come delle molteplici estensioni della mia personalità e, in un certo senso, ho potuto esplorare delle parti di me che non avrei potuto esplorare nella vita reale. Penso sia dovuto a Serge Gainsbourg. Anche lui aveva diversi personaggi, aveva anche una versione malvagia di se stesso.
E Luxardo? È malvagio?
“No, non lo è [ridacchia]. Lui è infallibile: è molto sicuro di sé. Rappresenta la mia personale idea di come potesse essere un musicista romano degli anni 70”.
Come ti è venuto in mente il nome? Perché proprio Luxardo?
“Qualcosa nel vedere una bottiglia di Luxardo ha fatto accendere la lampadina. Una volta che Tredici Bacci ha iniziato a prendere forma, ho capito di aver bisogno di un personaggio per poter condurre un gruppo come quello, così da poter interagire con il pubblico in un modo preciso. Però, avevo anche bisogno di una storia dietro il personaggio di Luxardo. Ed ecco la storia che mi sono inventato: Luxardo è un trentenne che vive negli anni ’70, è ebreo – perché lo sono anche io – e ad un certo punto è in un bar e qualcuno venne per ucciderlo. Lo stanno cercando sotto il suo vero nome, perciò lui si sforza di farsi venire in mente un nome falso e vede una bottiglia di Luxardo sulla mensola. Che dici, funziona?”.
In Italia se c’è di mezzo la criminalità funziona sempre.
“Ah, già [ride]”.
Quant’è importante il modo in cui si veste il personaggio?
“Molto importante. Dà un certo effetto. Nel creare Tredici Bacci ho preso pezzi di tutto ciò che mi ha influenzato durante la mia carriera e li ho combinati insieme, ma ho anche dovuto usare ciò che già avevo. Alla fine dei conti, sono sempre io”.
È ispirato a qualcuno in particolare?
“Forse un pochino ad Adriano Celentano, ma nei film italiani di serie B degli anni Settanta, c’è spesso un personaggio come questo. È ispirato allo stile di Adriano Celentano, ma un personaggio come Luxardo rende anche più semplice avere quella fiducia in me stesso necessaria per affrontare qualcosa che altrimenti per me sarebbe terrificante.”
E come sta andando? Funziona?
“Alcuni italiani venuti per caso ad un concerto a Brooklyn, dove Luxardo si stava esibendo da solo, alla fine dello show sono venuti a dirmi che non riuscivano a capire se fossi un non-italiano che faceva finta di essere italiano, oppure se fossi un italiano che faceva finta di non essere italiano. Mi ha fatto piacere, specialmente perché non mi ha fatto sentire irrispettoso, che non è ciò per cui voglio passare. Non lo faccio per prendermi gioco della cultura italiana. Inizialmente, la casa discografica voleva che minimizzassi la presenza di Luxardo, perché avevano paura che non sarei stato preso seriamente. Ma non posso farne più a meno”.
E gli americani? Che tipo di reazioni hanno? Sanno di cosa stai parlando?
“No, non hanno idea. Ma per me è una via di fuga. Non mi piace molto la cultura della mia generazione, la musica pop di oggi non mi entusiasma. Preferisco guardare film mediocri con Claudia Cardinale e Rock Hudson”.
Cosa c’è di così speciale nella cultura italiana di quegli ann?
“Ci sapevano fare. La linea cinematografica italiana di quegli anni è semplicemente perfetta. Sembra più dinamica”.
Vedi queste qualità anche nella cultura italiana contemporanea?
“La Grande Bellezza sembra muoversi da un atteggiamento simile. E, per quello che mi ricordo quando sono stato là, quando avevo 13 anni…”
Aspetta un attimo, vuoi dire che quella è stata l’unica volta in cui sei stato in Italia?
“Sì, è stata l’unica volta [sorride quasi imbarazzato]. È strano, vero? Ma ci tornerò molto preso. Penso di volermici trasferire prima o poi”.
Che ricordi hai di quel viaggio?
“Siamo stati in Toscana; mia madre aveva un’amica lì. Mi ricordo che c’erano sempre persone che venivano a trovarci, il cibo era delizioso e che ci sedevamo intorno al tavolo e parlavamo, tanto. E, per qualche inspiegabile ragione, mi era permesso bere vino e…beh, questo potrebbe suonare freudiano, ma ero nel bel mezzo della pubertà e c’erano ovunque delle donne davvero bellissime e nudità sui cartelloni pubblicitari”.
Non c’era nudità sui cartelloni pubblicitari negli Stati Uniti?
“In America, ti ci fanno pensare costantemente ma indirettamente, mentre in Italia c’erano delle persone vere e proprie, visibili. Sono cresciuto sulla West Coast che è un po’ più hippie, ma la East Coast è puritana. Siamo molto conservatori a riguardo. In Italia, il rapporto con la sessualità, sebbene sia un paese cattolico, riconosce che bisogna fare l’amore…che è salutare…”.
Queste cose sono incluse nel tuo progetto? Luxardo è un personaggio erotico?
“Luxardo è ciò che io non sono. Io ho paura di parlare con le donne, sono quello che non sa mai quand’è il momento giusto per dare un bacio – potrebbero passare ore prima che io faccia il primo passo, dico le cose sbagliate. Luxardo non avrebbe mai nessuno di questi problemi”.
Cos’è Vai! Vai! Vai!?
Ma è anche un film…
“Sì, è una cosa che si fa spesso: musicisti che dicono di aver scritto una colonna sonora per un film che non è ancora stato girato. Ho sentito il bisogno di organizzare le diverse idee e di trovare una scusa per limitare le idee musicali per scrivere più di un pezzo. L’album sembra quasi una colonna sonora che si può trovare su qualche blog su cui ci sono solo le cose più strane; c’è un tema solo che connette tutte le canzoni”.
Se ci fosse un film, come sarebbe?
“Una storia di auto da corsa. Ci sono tantissime immagini di modelle italiane del tempo che indossano caschi e gareggiano in macchine piccole e veloci. Sarebbe anche una commedia degli equivoci, divertente. Ad esempio in Come Imparai ad Amare le Donne, c’è una scena in cui lui incontra una donna in una macchina e si scopre che lei è una pilota molto brava e gareggiano in questa macchina piccolissima e ad un certo punto devono far andare la macchina più veloce, per cui iniziano a sbarazzarsi di tutto ciò che possono e ad un certo punto iniziano a togliersi i vestiti e a buttarli fuori dalla macchina. In pratica, sono entrambi nudi in macchina e vincono. L’idea di due persone, nude, in una macchina piccolissima, che vanno velocissimi è semplicemente troppo bella… vedi, è difficile spiegare cosa c’è di così grandioso nei film italiani”.
Riguardo la musica, cosa pensi ci sia di così unico in quel tipo specifico di musica?
“Quella musica è certamente influenzata dal pop, ma i compositori che scrivevano quei pezzi avevano studiato composizione classica contemporanea e combinavano la loro conoscenza di composizione con altri stili popolari a quel tempo. Per me al cosa più importante è l’orchestrazione. Io ho una teoria: prendi Il Buono, il Brutto e il Cattivo, puoi canticchiare la colonna sonora [inizia a canticchiarla], ma sapresti dirmi quante volte si sente durante l’intera durata del film e quali strumenti la suonano? Se guardi il film, si può sentire circa 50 volte e viene suonata ogni volta da uno strumento diverso. Visto che è un film, le idee musicali che si presentano devono essere semplici, iniziare e andare via, sottolineare il film – la musica felice è felice, la musica triste è triste, ma non ci sono regole sulla loro orchestrazione. Oggi, le colonne sonore di film come Batman, per esempio, sono fatte di archi e qualche suono elettronico. A quei tempi, c’erano solo un paio di archi e poi un’arpa, un piano, una donna che cantava ad alta frequenza, una tromba qui, un sax lì, una batteria…”.
Pensi che sia valido anche per le colonne sonore americane del tempo?
“Henry Mancini o Jerry Goldsmith erano abbastanza bravi, ma Ennio Morricone… il migliore! Se sei interessato all’orchestrazione, Morricone, Nino Rota, Armando Trovajoli, sono i migliori. Hanno inventato un nuovo tipo di suono, hanno creato nuove opportunità per il suono. Ascoltare un pezzo di Morricone è come ammirare una notte stellata: vedi questa cosa gigantesca con tutte le stelle attorno, ma quando ti concentri su delle singole parti, ognuna è bellissima e interessante, e se poi fai un passo indietro e cerchi di ammirare la notte nuovamente nella sua interezza, funzione comunque”.
Hai una colonna sonora preferita?
“Sì, è Metti una sera a cena [lo dice in italiano e devo chiedergli di ripeterlo, il che mi fa riflettere su quanto poco siamo abituati noi italiani a sentire la nostra lingua pronunciata con accento straniero]. C’è un pezzo che ascoltavo sempre sul treno e piangevo ogni volta. È ciò che considero una composizione perfetta. Ha un tema molto semplice e poi succede qualcosa e poi un’altra e poi succedono entrambe insieme e ogni volta è uno strumento diverso. Il climax è come urlare a pieni polmoni, ma non in modo dozzinale. È un pezzo felice e triste allo stesso tempo. Riguarda il vedere la bellezza nel mondo, ma dice anche che tutto è talmente bello che in qualche modo diventa triste”.
C’è nient’altro che apprezzi della cultura italiana?
“Credo sia l’architettura. Viene dal vederla nei film. E la lingua. Mi piace molto la sua musicalità, più della musicalità di qualsiasi altra lingua. La sto imparando, pian piano”.
Davvero? Com’è il tuo italiano?
“Terribile. Incredibilmente scadente. La mia pronuncia è tutta scombussolata…”
Vorresti essere nato nell’Italia anni ’70?
“Se fossi cresciuto negli anni ’70 a Roma, probabilmente sarei stato ossessionato dal jazz Americano degli anni ’30…”
Sempre al posto sbagliato al momento sbagliato?
“Esatto, il mio rapporto con tutta questa cosa è quello di un osservatore esterno, ma proprio per questo riesco a raccogliere quei succosi chicchi d’uva che mi parlano in un modo speciale”.
Perché hai deciso di trasferiti a New York?
“A Boston puoi arrivare solo fino ad un certo punto con una pop band italiana. Durante la prima settimana, appena trasferito a New York per la prima volta, sono andato ad un concerto da solo e ho conosciuto una persona di cui conoscevo già alcune opere, gli ho dato il mio biglietto da visita e più tardi mi ha invitato a casa sua. È finito con l’ingaggiarmi. Stando a New York, puoi finire nella stessa stanza con qualcuno di importante nel tuo settore. All’inizio, avevo paura di perdere me stesso, ma ho capito che se ti metti in un ambiente in cui le cose succedono, prima o poi succederanno anche a te. Abitando a New York, diventi una squadra con questa città e puoi conquistare il mondo. New York ed io siamo una squadra. È come in un film con una storia di compagni d’avventure”.
Traduzione dall’inglese di Giulia Casati.