Chiunque segua anche distrattamente i discorsi intorno all’evoluzione della lingua italiana sa chi è Vera Gheno. Dopo vent’anni passati come ricercatrice in istituzioni di prestigio (una su tutte: l’Accademia della crusca), negli ultimi anni Vera si è imposta nel dibattito su come avere, anche in italiano, un uso della lingua “inclusivo”, sulla scia di quanto sta avvenendo nel mondo anglofono. Se non avete sentito parlare di Vera, magari avete sentito parlare della sua creazione, lo Schwa, la proposta di inserire una vocale nuova in italiano per non fare torto alle persone “non binarie” (quelle che non si sentono né maschio né femmina, o che non hanno ancora deciso) e a tutti quelli che potrebbero non sentirsi rappresentati dall’uso del maschile sovraesteso. (Ho dovuto mettere “inclusivo” tra virgolette, perché ho sentito un mio amico marxista dire che quando sente parlare di Schwa, gli viene voglia di votare per la Meloni, e questo dà un pò la misura di quanto complessa si sia fatta la discussione).
Oltre a essere una vera (pun intended) esperta di sociolinguistica, Vera è anche un’amica da cui ho imparato molto quando ho mosso i primi passi da linguista amatoriale. Molte, e molto interessanti, le cose che ho appreso da lei.
Informato che Vera arrivava a Washington, ho bloccato subito l’ora e la data in calendario. E non me ne sono pentito. (Spoiler: e no, non si è parlato di Schwa)

Ambasciata e Istituto di Cultura, 21 ottobre, ore 6pm
Che cosa bolle in pentola? Giovani e lingua in Italia è il titolo dell’evento organizzato dalla direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura a DC, Elettra La Duca, nel contesto della Settimana della Lingua Italiana nel Mondo, con la collaborazione della nostra Ambasciata che ospita l’incontro nella sua prestigiosa sede.
La presentazione è in inglese, per essere inclusivi verso un folto gruppo di studenti americani della lingua italiana presso la Catholic University di DC, tutti seduti ordinatamente in prima e seconda fila.

Le slide introduttive sono molto interessanti per chi non conosce già l’argomento: il neostandard. Tutti noi sappiamo istintivamente che la lingua di tutti i giorni non è esattamente la stessa che si usa quando si scrive. Nel secondo caso si usano parole più altisonanti, si evitano le dislocazioni, si usa EGLI al posto di LUI, e LORO al posto di GLI, e così via.
I linguisti italiani se ne sono accorti ufficialmente negli anni ‘80 grazie a Francesco Sabatini e ad altri che hanno portato la brutta notizia ai colleghi dicendo: Raga, il congiuntivo nella lingua parlata è meno usato. Facciamocene una ragione. Questa “nuova lingua” io propongo di chiamarla neostandard.
Scherzo ovviamente. Il senso è quello, ma i ricercatori non si esprimono così. Così si esprimono se non i giovani, almeno gli “adultescenti”, gli adulti di oggigiorno che non vogliono crescere, spiega Vera. Dico adultescenti e non giovani, perché i giovani veri vanno oltre. Vera riporta alcuni esempi dall’avanguardia trap italica:
Vorrei fare fuori gli snitch
Manco gli ho detto: “Fuck”
Credo che il karma giri
Ma, Siri, tu dimmi dov’è, dov’è.
piuttosto che:
Mi ha chiamato il presidente del consiglio
Dice: “Tana, avrei bisogno di un consiglio
Voglio fare come te che sei uno sciallo:
“Gli ho detto: “Chiama dopo, sto chillando”
Insomma, la lingua dei giovani è un mappazzone di parole inglesi e parole dialettali che finisce per rappresentare una vera e propria neolingua non sempre di immediata comprensibilità anche per i diversamente giovani come me.
Adesso qualcuno inorridirà davanti a questi versi tuonando contro l’imbarbarimento dell’italiano. Altri invece potrebbero interpretarli come il modo – fondamentalmente fisiologico – che i giovani hanno di stabilire una propria identità separata da quella della generazione precedente, ridefinendo a modo proprio il lessico e la grammatica della lingua dei genitori.
Punti di vista. Personalmente dubito che il 99% di queste “innovazioni” avranno un impatto di lungo termine sulla lingua di libri e giornali, ma va bene così: il lavoro di una sociolinguista è quello di intravedere i segnali dell’evoluzione linguistica legati a cambiamenti sociali il prima possibile. E se ci sono molti “falsi positivi”, molti riverberi che formano un’allucinazione, va bene uguale. A recepire nei vocabolari c’è sempre tempo.
Nella presentazione di Vera ha trovato spazio anche Elisa Esposito, l’inventrice del “corsivo parlato” che ha fatto molto parlare di sé (anche esponendosi ad una certa gogna social) per l’invenzione di una variante modificata dell’accento milanese in cui l’elemento posh è spinto fino al parossismo. Le lezioni della Esposito sono diventate virali al punto che poi la professorina TikTok ha provato a monetizzare il successo aprendo un profilo Only Fans (come una moderna Beatrice della neolingua, la donzella si rivela con pochissimi veli al pubblico pagante).
Il vezzo di “parlare snob” è una costante delle grandi città, e Vera – che è poliglotta! – offre un esempio in Ungherese dello stesso identico fenomeno a Budapest. La trovata del “corsivo parlato” è a suo modo geniale, riconosce Vera.

La sintesi di tutto questo? La lingua che non cambia è una lingua morta perché non ha bisogno di rispondere ai cambiamenti della società in cui vivono i parlanti. Tu quoque, brutto fijo de’ ‘na m… . Andiamoci piano nel giudicare. Ricordiamoci che siamo stati sedicenni anche noi. La lingua evolve. Se ne facciano una ragione i grammarnazi di ogni ordine e grado.
Le domande del pubblico
Dopo il meritato applauso, cominciano le domande del pubblico, quasi tutte incentrate sul rapporto trai ragazzi, i social media e la lingua di Dante (si fa per dire). La più interessante: “Qual’è il ruolo dei social media in tutto questo? Al di là della normale dinamica di incomprensione generazionale, i social hanno in qualche modo modificato la relazione tra generazioni?”
La risposta è stata che sì, lo hanno fatto, perché questa accelerazione delle tecnologie è anche responsabile di un aumentato gap intergenerazionale. E anche: i social media rendono difficile discutere senza perdere la pazienza e arrabbiarsi. Questo succedeva molto più difficilmente quando le discussioni avvenivano di persona.
Amen. Guardare alla voce deindividuazione, aggiungo io.
Una domanda la faccio anch’io, visto che Vera nella sua presentazione aveva parlato della Crusca: “Che ruolo ha la Crusca rispetto a questa evoluzione?”
Vera ride, essendo al corrente di certe mie discussioni con l’Accademia stessa in passato (sull’apostrofo del qual’è), e certe incongruenze tra posizioni espresse ufficialmente che mi avevano portato a chiedere qual’è, in generale, la mission della blasonata istituzione.
Vera spiega che, dietro al logo della Crusca, ci sono vari studiosi con idee divergenti. Alcuni pensano che l’italiano vada descritto e basta, come si conviene a uno scienziato della lingua, mentre altri vorrebbero assumere un ruolo proattivo nel prescrivere cos’è giusto e cosa no secondo la loro dotta opinione di sacerdoti del sacro idioma. Del resto – e lì Vera sembra togliersi un sassolino dalla scarpa – se lei non lavora più lì, un motivo ci sarà.
Insomma, la Crusca non ha ancora deciso cosa vuol fare da grande. Descrivere o prescrivere? Decisione non pervenuta. Intanto, continuiamo a vedere una scheda che ci spiega cos’è BUFU in italiano alternata agli strali del suo presidente per l’apostrofo del qual’è.
Non si è parlato dello Schwa – come forse qualcuno si sarebbe potuto aspettare dalla Papessa incontrastata della neolingua inclusiva – però si è parlato delle condizioni a contorno. E se personalmente non penso che lo Schwa sia una buona idea, le considerazioni generali sono degne di nota. Sintetizzando – non c’è registrazione dell’evento, aimé – la classe egemone sceglie la lingua di tutti, e in quella scelta afferma e rinforza dei meccanismi che fanno gioco al mantenimento dello status quo. Per le altre componenti della società, rivendicare un ruolo diverso passa necessariamente per una ridefinizione della lingua stessa e delle sue categorie esplicite e implicite. Da lì al “ciao a tutt*” e poi allo Schwa, il passo è breve. È breve, ma questa sera non è stato fatto.
Si è fatta una certa. Applauso finale per Vera. Meritato. Qualcuno si avvicina alla speaker per altre domande. Il pubblico defluisce felice e contento. È stata una bella serata.