Noi lottiamo contro il linguaggio. Siamo in lotta contro il linguaggio”.
Mi sono imbattuto in questo aforisma di Wittgenstein, il cui solo cognome mi intimorisce, leggendo sparsamente alcuni sui Pensieri Diversi.
Tuttavia, nonostante il timore, mi pare sia una frase di duttile e agevole prensilità. Chiarisce più di quanto non smarrisca.
Consideriamo la locuzione: “Traffico di essere umani”.
“Traffico”, in quanto parola legata al gergo corsivo-penalistico, nasce con riferimento alle attività di contrabbando che, nei primi decenni del secolo, in Italia, riguardavano quasi esclusivamente merci di rilevanza doganale; la cui nocività, o non era nota o, quando pure venne ammessa, tuttavia non costituiva la ragione prima della proibizione, cioè, dell’idea veicolata da quell’espressione gergale. Eminente, in questa prima accezione, il ruolo dei tabacchi.
A cominciare dal Secondo Dopoguerra, a questa prima accezione di “Traffico”, se ne è venuta accostando un’altra: nella quale, invece, il rilievo del carattere pericoloso, o senz’altro nocivo, della merce “trafficata”, è divenuto prevalente.
Le sostanze stupefacenti, “La droga”, si sono venute legando così alla parola “Traffico”: che, da attività certo illegittima ma, non ritenuta unanimemente nociva, si è venuta connotando, entro quel gergo, di un univoco significato riprovevole. Chi comprava sigarette di contrabbando sentiva di essere, ed era, piuttosto “un furbo”, che un suicida o un potenziale “assassino”; né il rivenditore di sigarette di contrabbando, ragionevolmente, fu mai denominato “spacciatore”.
Questo nuovo “Traffico”, era da assimilarsi più a quello avente ad oggetto un’altra “cosa intrinsecamente nociva”, cioè, “univocamente atta a nuocere”, come le armi, che non alle originarie merci illegittime (l’uso medico-farmacologico degli stupefacenti, com’è noto, non riguarda la generalità della “roba” disponibile) .
Il “Traffico” segnava così il suo porsi come attività antisociale per eccellenza: la maggiore addirittura, capace da sola di mettere a rischio di dissoluzione un’intera compagine sociale e politica.
E, anzi, proprio in ragione di questa “intrinseca pericolosità”, delle armi come della “Droga”, il “Traffico” venne considerato, fra tutte le attività che riguardavano genericamente “il movimento di merci”, quella più pericolosa.
Implicando, inoltre, a misura che le “merci” si venivano diffondendo nell’uso, un sempre più strutturato elemento organizzativo, nella comune valutazione, l’attività di “traffico” veniva ad essere non seconda, se non superiore, alla stessa sua produzione: come è attestato dalla duplice circostanza che, sia i produttori di stupefacenti come quelli di armi, rimangono sullo sfondo della pubblica preoccupazione: immediatamente impegnata dalla “meccanica distributiva”.
Se non ci fosse una “importazione” attiva, la più parte degli osservatori, non saprebbero granché dei campi afgani o colombiani; né, in effetti, sembrano interessarsene assiduamente; quanto alle armi, i produttori sono addirittura un’industria pienamente inserita nelle società più economicamente e tecnologicamente evolute.
Per la “produzione” della “merce intrinsecamente pericolosa”, pare contare, insomma, più il buon vecchio N.I.M.B.Y. (va bene, purché non nel mio giardino), che una più nitida riprovazione morale, invece riservata più immediatamente al “Traffico”.
Ora, tutta questa breve etimologia corsivo-penalistica, mi è venuta in mente, dicevo, a proposito del “Traffico di essere umani”. Facendomi interrogare se non sia il caso di intraprendere “una lotta” contro un certo linguaggio.
Lo slittamento semantico, infatti, non è neutro, in termini morali. Bisogna fare attenzione.
Già, implicare che un essere umano sia una “merce”, qualche allerta la suscita. Certo, è agevole precisare che, dal lato del “Trafficante”, la degradazione è ovvia: altrimenti, non sarebbe considerato un “Trafficante”, ma un vettore.
Ma dobbiamo considerare se, per avventura, fra una parola e l’altra, non avvenga che la coscienza immorale “alla partenza”, non si riverberi anche sull’ “arrivo”: quando non finisca con l’acquisire, specificamente su questo piano, ragioni di immoralità sue proprie: altre, concorrenti, ma distinte, da quelle colte “alla partenza”.
C’è solo un modo per capirlo. Stabilire se “l’oggetto” di questo “traffico” sia ritenuto “intrinsecamente pericoloso”. Oppure no.
L’uomo, in sé, non può costituire in nessuna circostanza, un “oggetto”. Tanto meno “intrinsecamente pericoloso”. E tuttavia, sembra che “i tecnici del Viminale”, come viene riferito, stiano impegnandosi per configurare una tale connotazione: L’Uomo come arma-in-sé, l’Uomo, come-veleno-in sé.
Come mai una simile ipotesi?
Leggiamo da Il Giornale che due norme della Convenzione Onu sui diritti di navigazione, l’art. 19 e l’art. 17, offrirebbero una sponda normativa per consentire un “blocco navale”, fino a “veri e propri respingimenti in mare”.
Il primo articolo allude ad “impiego della forza”, “contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dello Stato costiero“; vale a dire, ad uno “stato di guerra” propriamente inteso; la seconda, si occupa di “passaggio” navale, in violazione di “leggi o regolamenti”.
Ma, mentre la prima norma evocata in questo contesto, che pure assimila “il carico” ad un’azione bellica, segna una perniciosa intenzione politica, è però più rivelante la seconda: giacché, dietro l’apparenza di una neutra rilevanza della “violazione di leggi o regolamenti”, tradisce un’inconsulta parificazione; è, infatti, norma a carattere “doganale”, che riguarda, indistintamente, il “caso di carico o lo scarico di materiali, valuta o persone”.
Per resistere ad una guerra, non occorre che si scomodino i “tecnici de Viminale”. Ci penserebbe il Presidente della Repubblica. Però si cercano “interpretazioni” per agire “come se”. Teniamone conto.
Ma per distinguere “materiali o valuta” dall’Uomo, forse, invece, si può agire alla radice.
Intraprendendo una “lotta” contro il Linguaggio.
Una lotta contro la locuzione ambigua, pericolosa, emotiva, “Traffico di esseri umani”.