Il professor Giuseppe Patota è docente di Linguistica italiana presso l’Università di Siena (Sede di Arezzo); autore di oltre cento pubblicazioni, tutti libri sull’uso della nostra lingua. Inoltre, è consulente linguistico di Rai Scuola per la realizzazione di programmi finalizzati all’insegnamento dell’italiano a stranieri, accademico della Crusca, presidente della giuria delle Olimpiadi di italiano organizzate dal MIUR, e direttore delle collane “Grammatiche e lessici” e “Le varietà dell’italiano.
Il suo ultimo libro raccoglie tre saggi sui padri fondatori e paradigmi della nostra lingua, Dante, Petrarca e Boccaccio, e l’autore ci fa capire che la prima grande bellezza dell’Italia è certamente la sua lingua.
In questa intervista il prof. Patota ci racconta anche la storia di come nacque il suo manuale sulla parola ‘bravo’, pubblicato nel 2016 dal titolo Bravo .
Professor Patota, qual è stata la sua maggiore motivazione per scrivere il libro La grande bellezza dell’italiano ?
“Una prima motivazione è stata quella di ricostruire le ragioni storiche di un paradosso. L’associazione fra l’italiano e la bellezza che compare nel titolo del mio libro, infatti, è inaccettabile sul piano teorico: perché mai una lingua, in quanto tale, dovrebbe possedere bellezza? Le lingue, in sé, non sono né belle né brutte, quali che siano i criteri assunti per descriverle: sono, e basta. Sul piano storico, però, il collegamento fra l’italiano e la bellezza è alla base di un’opinione comune che ricorre da molto tempo fra le persone colte di tutto il mondo. Dal Rinascimento in poi, i grandi scrittori e artisti stranieri hanno qualificato l’italiano con decine di aggettivi apprezzativi: armonioso, delicato, dolce, elegante, fluido, gentile, gradevole, grazioso, liscio, melodico, piacevole, seducente… la lista potrebbe continuare.
La seconda motivazione è meno positiva. Non le sarà sfuggita l’associazione fra il titolo del mio lavoro e quello del film che nel 2014 ha fatto vincere l’Oscar a Paolo Sorrentino. Il mio libro è nato anche dalla persuasione (malinconica) che il contrasto fra la bellezza incommensurabile di Roma e lo squallore di coloro che la frequentano raccontato da Sorrentino andrebbe esteso a molti altri rapporti che riguardano noi italiani: fra gli altri, anche a quello che intercorre tra la nostra lingua e il rispetto che ne abbiamo”.
Nel suo libro descrive il percorso fatto dall’italiano tramite i padri fondatori e paradigmi della nostra lingua, Dante, Petrarca, e Boccaccio. Qual è il segreto per il successo dei loro capolavori: la Divina Commedia, il Canzoniere e il Decameron?
“Commedia, Canzoniere e Decameron custodiscono al loro interno non un solo segreto, ma centinaia: un numero che aumenta ogni volta che leggiamo o rileggiamo questi capolavori o anche soltanto dei loro frammenti. Per ovvie ragioni di brevità, mi limiterò a un esempio per ciascuna opera.
Nel XXXIII canto del Paradiso Dante offre una visione che avvicina qualunque lettore all’idea di Dio (o, se si preferisce, dell’Universo) più di quanto non potrebbero fare mille trattati di teologia, fisica o filosofia. Dice di aver visto, nella profondità della luce, legato con amore come in un unico libro, ciò che nell’universo «si squaderna», cioè risulta sparso in singoli fogli: «Nel suo profondo vidi che s’interna, / legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna». Quando leggo questi versi, non posso fare a meno di pensare che Dante il Paradiso lo abbia visto davvero!
Quanto a Petrarca: per realizzare il suo Canzoniere, si diede da fare coi numeri e perfino col sistema binario non dirò come Alan Turing, Bill Gates o Steve Jobs, ma quasi. Faccio un po’ di conti. La raccolta del Canzoniere conta 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate, 4 madrigali: in tutto 366 componimenti (pari ai giorni dell’anno bisestile) o anche 365 (pari ai giorni di qualunque anno) più uno introduttivo. In un sonetto Petrarca racconta che il suo primo incontro con Laura avvenne il 6 aprile del 1327.
Da un terzo sonetto, infine, ricaviamo che Laura morì (stroncata dalla peste) esattamente 21 anni dopo, il 6 aprile del 1348. Nell’uno come nell’altro caso, Petrarca consacra a Laura il numero 6. I testi del Canzoniere sono 366 perché in questo numero, che è un multiplo di 6, il 6 compare due volte, così come due volte gioca un ruolo fatale nella vicenda amorosa: un 6 aprile c’è l’incontro, un 6 aprile c’è la morte. La somma dei fattori di 366 è 15, e la somma dei fattori di 15 dà di nuovo 6; e 6 sono le lettere che compongono il nome latino di Laura, cioè Laurea.
Se Petrarca è stato un ingegnere delle parole, Boccaccio ne è stato un prestigiatore. Il protagonista della decima novella della sesta giornata del suo Decameron è frate Cipolla, un simpatico imbroglione che in una predica volta ad abbindolare i parrocchiani per ottenere una ricca elemosina trasforma con le parole una passeggiata per le strade di Firenze in un viaggio misterioso ai confini del mondo, dal quale è tornato con una reliquia tanto prestigiosa quanto falsa: – «i carboni co’ quali fu arrostito san Lorenzo». Chi sarà toccato da questi carboni, dice frate Cipolla, vivrà «sicuro che fuoco nol cocerà che non si senta». È ovvio: il fuoco che non si sente non cuoce!”
Dal Trecento a oggi la nostra lingua è mutata molto. I termini stranieri e neologismi arricchiscono o impoveriscono l’italiano?
“Non c’è dubbio che le parole nuove arricchiscano l’italiano, così come arricchiscono qualunque altra lingua; né i termini stranieri ne scalfiscono l’identità: l’italiano, lingua dalla storia millenaria, non sarà certo alterato dall’intrusione di qualche centinaio di parole straniere. Quello dei forestierismi e degli anglicismi in particolare non è un problema di lingua, ma di stile e di buon gusto: che bisogno c’è di dire location quando si può dire posto? Perché bisogna parlare di spending review quando l’italiano ha revisione di spesa?
Anche in merito a questo argomento, Dante aveva già capito tutto, con straordinaria preveggenza. In uno dei capitoli iniziali di un’altra sua opera, il Convivio, Dante se la prende contro certi «malvagi uomini d’Italia, che commendano [cioè lodano, esaltano] lo volgare altrui [cioè le lingue moderne degli altri] e lo loro proprio dispregiano»: evidentemente, gli intellettuali italiani del tempo, che già allora esaltavano lingue straniere come il francese e il provenzale. «Ci sono molti» scrive Dante «che, per il fatto di scrivere in una lingua straniera e lodarne le qualità, credono di essere ammirati più che se esponessero gli stessi argomenti nella loro lingua. Imparare bene una lingua straniera è certamente lodevole, ma lodarla al di là del vero solo per potersi vantare di questa conoscenza è una cosa da rimproverare». Fatte le debite differenze, potremmo applicare queste parole non solo, e non tanto, all’anglofilia di basso profilo di alcuni settori attuali dell’informazione, dello spettacolo e della moda italiana, quanto a quella di chi istituisce interi percorsi di studio in lingua inglese nel sistema universitario italiano, cioè nel sistema in cui hanno insegnato scienziati come Galileo Galilei, economisti come Antonio Genovesi e altri grazie ai quali alcune scienze cosiddette “dure” hanno parlato, per la prima volta nella storia, una lingua che non era né il latino né tantomeno l’inglese, ma l’italiano”.
Si legge dei tagli sui fondi per la lingua italiana all’estero anche da parte della Farnesina, sia nei paesi europei, come la Svizzera e la Germania, e sia negli Stati Uniti e in Canada. Prof. Patota, nell’era della globalizzazione investire nell’italiano può essere un modo per produrre ricchezza?
“Qualche anno fa un ministro della Repubblica Italiana, di cui non dirò il nome sia per carità di patria sia perché non voglio buttarla in politica, rispose alle domande dei giornalisti sui tagli alla cultura previsti da una manovra economica rilasciando questa dichiarazione: «Di cultura non si vive, vado alla buvette a farmi un panino alla cultura e comincio dalla Divina Commedia». Invece, a mio avviso, di cultura l’Italia potrebbe vivere, e anche bene. Con i suoi siti archeologici preservati, le sue meraviglie architettoniche protette, la grande tradizione museale, musicale e teatrale valorizzata, alcune grandi biblioteche pubbliche gestite meglio, l’Italia potrebbe diventare il museo e la biblioteca del mondo: un enorme Università all’aperto e al chiuso in cui le arti figurative, la musica e la letteratura potrebbero essere insegnate in italiano. Anche per questo, investire per l’insegnamento della lingua italiana nel mondo può essere – o meglio è – un modo per produrre ricchezza”.
Lei ha scritto un volumetto intitolato ”Bravo” qual è l’alterna storia di questo termine?
“Il libro è nato nel Campus universitario di Arezzo, dove insegno. Durante una lezione sulla lingua dei Promessi Sposi, un mio studente mi chiese: «Professore, nell’italiano la parola bravo ha un significato positivo: è bravo chi è ‘abile’, ‘capace’; oppure chi è ‘buono’, ‘onesto’ e fa il suo dovere. Come mai, invece, i bravi di Alessandro Manzoni tutto erano meno che bravi?». Lo studente aveva ragione. Riflettendo fra me e me, ho pensato che nell’italiano attuale non hanno un significato positivo neppure la parola bravata, la cui derivazione da bravo è trasparente né l’espressione notte brava: una bravata, infatti, è un comportamento o un discorso provocatorio, tracotante o minaccioso, oppure un’azione inutilmente rischiosa; una notte brava , invece, è una notte turbolenta, fatta di bravate, atti di teppismo o divertimenti sfrenati.
La domanda dello studente meritava una risposta meditata e articolata; a poco a poco, la risposta si è trasformata in un libro. Per rispondere bene, sono dovuto risalire al fondo etimologico di bravo. Il termine ha il suo antecedente nel latino barbarus (a sua volta proveniente dal greco bàrbaros), che naturalmente ha dato origine, come è facile intuire, anche a barbaro e che indicava lo ‘straniero’, in quanto tale non solo rozzo e incivile, ma anche crudele e feroce. Bravo e barbaro, dunque, sono parole sorelle: perciò non meraviglia che la prima bravo, nella sua storia remota, abbia condiviso molte valenze negative della seconda, barbaro.
Nell’italiano antico, dall’inizio del Trecento fino alla fine del Quattrocento, l’aggettivo bravo significa più cose insieme: ‘feroce’, ‘crudele’, coraggioso sì, ma fino alla temerarietà: è molto «difficile distinguere i significati positivi da quelli negativi. Questa difficoltà si fa ancora più vistosa dalla fine del Quattrocento in poi.
Nell’Italia tormentata dai conflitti che fra il 1494 e il 1559 la riducono a un campo di battaglia e a un oggetto di conquista da parte degli eserciti stranieri, non si può guardare troppo per il sottile, e le componenti negative passano in secondo piano: in battaglia, in guerra, quando c’è da menar le mani, essere bravi è una virtù necessaria, nel senso machiavelliano del termine. È in questo periodo che nascono i bravi (bravi non più aggettivi, ma nomi): sbandati delle compagnie di ventura travolte dagli eserciti stranieri che diventano sgherri al servizio dei potenti. Sono questi i bravi di cui ci parla Manzoni nei Promessi sposi. Naturalmente, c’è bravo e bravo: c’è il bravo vero e il bravo solo a parole.
Il secondo, il bravo a parole, diventa un personaggio da commedia: lo troviamo nella commedia rinascimentale italiana, nei canovacci della commedia dell’arte, perfino nelle commedie di Carlo Goldoni: funziona, perché si fonde e si confonde col personaggio del soldato spaccone; il primo, il bravo vero, diventa un personaggio da tragedia, anzi: da melodramma tragico.
Questo è – un personaggio tragico – lo Sparafucile che, nella Mantova del secondo Cinquecento in cui è ambientato il Rigoletto di Verdi, pugnala Gilda: un bravo – avverte Francesco Maria Piave in apertura di libretto – di cui il personaggio che dà il titolo al dramma dice: Pari siamo!…io la lingua, egli ha il pugnale.
Negli stessi anni (e talvolta negli stessi testi) in cui comincia a essere adoperata anche come nome per indicare gli individui di basso livello di cui vi ho detto, la parola bravo viene anche depenalizzata: assume prima il nuovo significato di ‘capace’, ‘abile’ e poi il significato di buono (pensate a brav’uomo, brava donna, brava persona) che ha mantenuto fino a oggi. La carriera di bravo non finisce qui: fra seicento e settecento la parola diventa addirittura un’esclamazione, un complimento da rivolgere a chi dice o fa, ha detto o ha fatto, dirà o farà qualcosa che merita consenso o incoraggiamento: Bravo!
Impossibile non pensare ai bravo e ai bravissimo che ricorrono in Largo al factotum, la cavatina che il baritono canta nella seconda scena del primo atto del Barbiere di Siviglia .
Ai bravo e ai bravissimo che Figaro rivolge a sé stesso in forma di citazione fecero eco, nei teatri di tutto il mondo, i bravo! e i bravissimo! gridati dal pubblico all’artista, agli artisti e alle artiste di turno: anche agli artisti e alle artiste, perché l’italianismo bravo! si è diffuso in più di quaranta lingue del mondo come esclamazione invariabile nel genere e nel numero; è diventato un marchio di automobili, di ciclomotori e perfino di biancheria intima femminile: in rete, il reggiseno bravissimo fa concorrenza al wonderbra; tutte e due sono parole macedonia in cui il primo e l’ultimo pezzetto è bra, che in inglese vuol dire reggiseno. Nella storia della musica italiana, il bravo! più famoso dopo quello che echeggia nel Barbiere di Gioacchino Rossini è il brava cantato da Mina nella canzone divertissement costruita nel 1965 da Bruno Canfora per saggiare le straordinarie capacità vocali di questa cantante che, con prodigiose scorribande lungo un’estensione vocale di oltre due ottave, ne restituì un’esecuzione strabiliante”.