Le parole, nel corso del tempo, non mantengono sempre lo stesso significato. Questo si modifica perché muta il contesto culturale nel quale esso si situa. Alcune parole scompaiono, altre nascono. Alcune, invece, assumono significati diversi a seconda del luogo in cui vengono usate. Potremmo dire niente di nuovo.
Tuttavia quando ho avuto modo di parlarne a lezione ho fatto un esempio che ha spiazzato molti studenti: ho chiesto loro cosa significasse essere bravo. Molti mi hanno risposto con il significato più diffuso e riconosciuto: capace, abile, o anche buono. Al che ho aggiunto di contestualizzare queste abilità in Italia. In altre parole cosa significa essere veramente bravi in Italia? Un bravo imprenditore, un bravo politico, un bravo poliziotto, un bravo giornalista e perché no un bravo studente sono effettivamente ruoli dai quali ci si aspetta qualità esclusivamente positive? Non credo. Molti dei miei studenti, infatti, hanno sovrapposto alla parola bravo l’idea di furbo. La capacità di sapersi muovere nelle situazioni anche a discapito delle regole o di una morale condivisa. La parola bravo a pensarci bene, in altri termini, non denotava qualità solo positive.
Quello che in aula è sembrato un “banale” esempio diventa un tema analizzato, approfondito e descritto chiaramente in un libro agile e di facile lettura: Bravo! del linguista Giuseppe Patota. È la storia di una parola intrigante, paradigmatica di come i significati non stiano in tassonomie e definizioni rigide e spesso neanche nelle etimologie originali ma sono il risultato di un percorso nel tempo. Alfredo Panzini nell’introduzione al suo Dizionario moderno, scrive che le parole “hanno percorso strano e tortuoso viaggio… Hanno un loro movimento, quasi orbita di moto, una loro vita, o molte volte secolare od effimera, vita solitaria o mondana” .
Ma dove sta la suggestione di questa parola? Da un lato inizialmente aveva un significato del tutto opposto a quello odierno, dall’altro appartiene a quelle parole diventate italianismi, esportate nel mondo e patrimonio di altre lingue.
Patota ricostruisce il percorso della parola bravo, rispondendo alle suddette questioni. Lui stesso racconta come nasce l’idea del libro, da una domanda di un suo studente: “Professore, nell’uso italiano contemporaneo la parola bravo ha un significato normalmente positivo: è bravo chi è ‘abile’, ‘capace’; oppure chi è ‘buono’, ‘onesto’ e fa il suo dovere. Come mai, invece, i bravi di Alessandro Manzoni tutto erano meno che bravi?”. Bravo, quindi, come aggettivo ha un significato positivo, anche quando si tratta di una formula esclamativa di approvazione: Bravo! oppure Bravissimo!, a meno che non sia utilizzata in senso antifrasistico. Tuttavia, il sostantivo: il bravo, oppure la bravata rimandano a significati tutt’altro che positivi, a partire dal ricordo che tutti abbiamo dei due scagnozzi di Don Rodrigo, dall’aria non certo rassicurante uno “a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata al di fuori, e l’altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto” che incontrano il povero Don Abbondio, nei Promessi Sposi del Manzoni. Un ricordo, almeno per me, con sorpresa perché non conoscevo quel significato “anomalo”, cioè esattamente l’opposto di quello che io gli attribuivo.
Il libro ci accompagna dentro la storia di un termine in grado di raccontare la complessità dell’uso e della diffusione di una lingua senza evidenti cesure temporali. Anzi con significati opposti che coesistono.
La più antica attestazione di bravo risale al 1311 in una rima baciata dedicata a Santa Lucia. Qui il significato è quello di sgherro, che rimanda alle qualità di “arrogante”, “temerario”, “feroce”. Perché questo significato? Perché ha il suo antecedente in barbarus “straniero”, “incivile”. Poi nei secoli successivi la svolta. Bravo diventa una qualità positiva, cioè “capacissimo”, “abilissimo” in uno scritto di Galileo Galilei che definisce “qualche bravo autore”. La storia è naturalmente articolata ma impreziosita di documenti e prove che rendono la lettura una scoperta pagina dopo pagina.
Per quanto riguarda l’espressione esclamativa bravo!, Patota ci spiega come questa sia diventata d’uso di tante altre lingue: arabo, catalano, ceco, coreano, francese, giapponese, greco, indonesiano, inglese, malese, olandese, polacco, tedesco, turco, ecc… Forse vi dirà qualcosa la famosa cavatina del Barbiere di Siviglia di Rossini, Largo al factotum: “Ah, bravo Figaro! Bravo, bravissimo. Bravo! La la la la la la la la la la! Fortunatissimo per verità! Bravo!”. È lo stretto legame che unisce l’opera italiana all’utilizzo di questa parola, innanzitutto come approvazione alla fine di un’esibizione, a farne un italianismo.
In epoche più recenti si producono motorini, il Bravo della Piaggio o macchine come la Brava della Fiat. Un inglese fonda un’azienda di reggiseni e la chiama Bravissimo, giocando sulla sillaba iniziale bra (reggiseno in inglese). Petrolini fa del bravo il protagonista di una scena esilarante del suo Nerone, Mina una canzone Brava per mostrare le sue straordinarie abilità canore.
Il linguista ricorda l’espressione Italiani brava gente, in riferimento al film di De Santis del 1965 e alla minore crudeltà degli italiani in guerra. Qualità che anche Monicelli, nella sua La Grande Guerra, ci aveva raccontato. Per contrasto Angelo Del Boca nel suo testo, appunto, Italiani brava gente ne smonta il buonismo e mostra il loro lato più oscuro fatto di eccidi, massacri e grandi crudeltà.
Nella chiosa del libro si capisce l’intento ultimo dell’autore che è poi il motivo per il quale ho deciso di scriverne: l’ambiguità delle parole che raccontano l’ambiguità del vivere. Si tratta di “una piccola parola dalla grande storia, testimone di tante vicende della storia d’Italia, dal Rinascimento ai giorni nostri e di tante qualità – buone e cattive – di noi italiani”.