C’è una domanda, solo in apparenza semplice, che attraversa come una linea sottile i due vademecum promossi dall’Ordine dei Giornalisti e dalla ASL Roma 2: cosa significa raccontare la disabilità o la salute mentale con rispetto, senza cadere nei luoghi comuni, nella semplificazione, nel paternalismo? Ma soprattutto: chi ha diritto di raccontare, e da quale posizione?
Una questione che non riguarda solo l’Italia. Negli Stati Uniti, dove la cultura dei media ha spesso oscillato tra ipervisibilità e invisibilità delle persone con disabilità, si moltiplicano progetti di inclusive journalism e storytelling partecipato, ma restano profonde le disuguaglianze nella rappresentazione e nell’accesso alla parola pubblica.
A questa domanda hanno risposto insieme Lorenzo Sani, giornalista e autore della guida Comunicare la disabilità. Prima la persona, ed Emanuele Caroppo, psichiatra e curatore del vademecum Informare sulla salute mentale, che prende corpo dalla collaborazione tra l’Ordine, Rai per la sostenibilità e il Dipartimento di Salute Mentale della più grande ASL d’Italia. Le loro voci non si rincorrono, ma si affiancano, costruendo una riflessione comune sul ruolo dell’informazione in un campo ancora per molti versi fragile, esposto, storicamente parlando poco ascoltato.
Sani parte da un assunto che per chi fa questo mestiere dovrebbe essere ovvio, ma spesso viene dimenticato: “Il linguaggio è il nostro core business”, dice. È attraverso le parole che il giornalista esercita la propria responsabilità. E quelle parole, se usate male, possono diventare macigni. Troppo spesso, raccontare la salute mentale o la disabilità significa raccontarla male: si seguono schemi narrativi che riducono le persone a sintomi, a casi, a etichette. Si semina stigma, si rafforza il pregiudizio, si alimenta quella retorica che fa della diversità una minaccia.

Per Caroppo, dare voce a chi vive un disturbo mentale non è solo importante: è un gesto rivoluzionario. “Significa ridefinire i confini tra cittadinanza e marginalità, tra diagnosi e identità. Spostare lo sguardo dalla malattia alla persona, dal deficit alla possibilità.” Quando la comunicazione parla di salute mentale senza parlare con chi l’ha attraversata, si condanna a restare sterile. È così che, per anni, si è alimentato il mito della pericolosità: un racconto distorto, che confonde la cura con il controllo, la clinica con la custodia. E che finisce per rafforzare l’isolamento. Perché il vero problema dello stigma, dice Sani, è che impedisce alle persone di chiedere aiuto. “Il tempo che intercorre tra i primi segnali di disagio e la richiesta di cura è ancora troppo lungo. Parliamo di anni. Anni segnati da silenzi, da paura, da vergogna.”
I numeri, quando ci sono, aiutano a mettere a fuoco l’ampiezza del fenomeno. Ma non bastano. In Italia, secondo il Ministero della Salute, ci sono oltre 850.000 utenti adulti seguiti dai servizi di salute mentale. Aggiungendo minori e non rilevati, si arriva a un milione. Eppure, questa cifra è solo la punta dell’iceberg: non tiene conto di chi non si rivolge ai servizi, di chi resta fuori per motivi economici, culturali o semplicemente perché non sa come fare. Sani lo ribadisce: “Ridurre tutto a numeri inverosimili è parte del problema. Le persone non sono statistiche. Il linguaggio deve riflettere questa complessità.”
E in effetti, il linguaggio non è mai neutro. Parole come “raptus”, “follia”, “matto” non sono solo improprie: sono dannose. Perché traducono in semplificazione ciò che invece è sfaccettato, stratificato, umano. “Il raptus, per la psichiatria, non esiste”, dice Sani. “Eppure è ovunque nei titoli dei giornali, associato sempre alla violenza.” Ma i dati raccontano altro: le persone con disturbi mentali sono vittime di violenza molto più spesso che autrici. Eppure, nel racconto pubblico, questa realtà resta ai margini. “Non possiamo permetterci queste forzature”, aggiunge. “Il giornalismo ha una deriva etica e deontologica dalla quale non può prescindere”.
Caroppo va oltre: se non si coinvolgono direttamente le persone interessate, se non si trasforma davvero la struttura della comunicazione, non si sta facendo inclusione. Si sta facendo “make-up comunicativo”, una forma elegante di esclusione. “Troppo spesso si celebra solo chi è funzionale al sistema, lasciando indietro chi ha bisogni complessi. È quella che la letteratura chiama neurodiversity-lite: una rappresentazione apparentemente progressista che però non cambia nulla”. L’inclusione, spiega, non si misura dalle parole usate, ma da chi ha diritto di usarle. Una comunicazione realmente inclusiva, per lui, “non racconta solo storie ispirazionali e levigate. Deve accogliere il conflitto, la fatica, la fragilità. Altrimenti è solo retorica. E la retorica, nella disabilità e nella salute mentale, è una scorciatoia pericolosa”.
In definitiva, ciò che Sani e Caroppo propongono non è un linguaggio più corretto, ma un linguaggio più vero. Un cambio di sguardo, più che di forma, che metta la persona al centro, non come “tema” o come “caso”, ma come coautrice della propria storia. “Il politically correct”, tiene a precisare Caroppo, “è spesso un monologo beneducato. L’inclusione vera è un dialogo che cambia le regole del gioco”.
E se il giornalismo vuole restare rilevante, questa è la direzione da seguire. Non si tratta di ideologia, né di militanza. Si tratta, semplicemente, di rispetto. Di un’etica che non è accessoria, ma fondante. “Noi giornalisti”, conclude Sani, “abbiamo una fortuna: le parole sono il nostro strumento. Sta a noi decidere se usarle per costruire muri, o per aprire ponti”.