Apparso in prima edizione in Inghilterra nel 2013 e in Italia nel 2016, il classico di Peter Mair, Ruling the Void – The Hollowing of Western Democracy, esce da Rubbettino in una seconda edizione arricchita dall’introduzione di Chris Bickerton e dalla postfazione di Maurizio Serio.
La prima annotazione – spiacevole – riguarda il titolo del libro. Adottando una tecnica di marketing che la nostra cinematografia utilizza da sempre per le pellicole estere, l’editore altera il titolo, peggiorando il concetto originale: il significativo ed efficace “svuotamento della democrazia occidentale” diventa “fine della democrazia dei partiti”. La seconda annotazione – positiva – riguarda la qualità di introduzioni e postfazione. La terza è che in politica i vuoti sono sempre riempiti, e lo svuotamento che Mair identificò , è già stato colmato dai populismi, ovvero dalla disintermediazione (via i partiti, i sindacati, la stampa, i professori, gli educatori, e così via eliminando) e dal rapporto esclusivo tra masse e leader.
L’apporto di Mair alla politologia, come riconoscono i saggi di accompagnamento, è significativo perché l’autore è tra i primi a comprendere che la fase politica che, nel cosiddetto occidente, si è aperta alla caduta dello spauracchio sovietico, comporta il rischio della deriva democratica. Lo fa partendo dalla constatazione che “il tempo della democrazia dei partiti è finito”. Precisando, che il problema non sono stati i partiti in quanto tali, ma la loro progressiva e inarrestabile “disconnessione” dalla società insieme al loro perdersi dentro “una forma di competizione [… ] insignificante”. Quelle prassi sono andate a inficiare “il loro operato, la loro legittimità ed efficacia e, di conseguenza, quelle della democrazia moderna.”
La legittima domanda all’autore potrebbe essere se ritenga che democrazia e rappresentanza attraverso i partiti siano la stessa cosa. La risposta sarebbe probabilmente un rotondo no, perché il libro non gira tanto intorno al ruolo/non ruolo dei partiti, quanto alla partecipazione/non partecipazione dei cittadini alla vita e ai processi decisionali delle istituzioni. La constatazione centrale del ragionare è l’emersione di una democrazia “sempre più spogliata della sua componente popolare – sempre più lontana del demos.” Dal che si può dedurre, e l’autore lo fa, che dei partiti si possa fare a meno, purché vi siano altre forme di partecipazione in grado di influenzare le decisioni della politica (associazionismo, referendum, manifestazioni, dibattito pubblico anche via social media).
Evidentemente il “nuovo” tipo di partecipazione, che accantonerebbe dei soggetti – i partiti – nel frattempo percepiti come non solo inutili ma pericolosi, potrebbe rendersi verosimile solo nel caso in cui i cittadini tornassero a manifestare interesse alla politica, e dismettessero l’abito dell’indifferenza, situazioni soggettive e obiettive che Mair rileva all’origine della crisi attuale della democrazia, arrivando a paventare – con de Tocqueville – che possano evolvere in aperta ostilità verso coloro che “godono di privilegi per una funzione che non sono più in grado di espletare”.
Scorrendo l’indice del libro di Mair, appare chiaro il processo logico seguito dal politologo britannico, con riferimento ai paesi europei: dal constare la fine del “coinvolgimento popolare”, arriva a documentare “il disimpegno delle élite” e a immaginare una “democrazia popolare” che dialoghi con “il sistema politico dell’Unione Europea”. Bene fa l’autore a pronunciarsi per la non univocità del termine “democrazia”, attraverso la dicotomia democrazie liberali e tutte le altre, attribuendo solo alla prima la pienezza di libertà politiche che il termine sottintende. Bene fa anche a non aderire pienamente alla tesi sul presunto deficit democratico delle istituzioni create dai trattati di Lisbona (2007), benché – per ragioni legate anche al tempo nel quale il libro è stato scritto (tabelle e riferimenti non vanno oltre la prima decade del secolo) – manchi la consapevolezza dell’enorme evoluzione registrata dal Parlamento Europeo nella scorsa legislatura, e di conseguenza l’ulteriore crescita della rappresentanza democratica del sistema unionale.
In tale contesto sfugge del tutto all’autore, la crescente consapevolezza che gli europei hanno di appartenere a un demos comune dotato di “cittadinanza europea”, il che appare con evidenza nelle cosiddette generazioni Erasmus. Al tempo stesso sfugge la rilevanza di un diritto comunitario che non solo è unico per i 27, ma è prevalente sul diritto nazionale, attraverso le azioni della Commissione e le deliberazioni della Corte Ue. Gli eccessi euroscettici dell’autore arrivano a coinvolgere un incolpevole Robert Dahl (ne scrisse nel 1966!) e le sue congetture sui tre ingredienti minimi che qualificano una democrazia, in quanto mancherebbe, nella Ue, la capacità di opposizione. E cos’altro fanno Ungheria e Slovacchia se non opposizione? E cosa per decenni fece il Regno Unito, fin poi ad abbandonare la Ue? Per non dire di ciò che quotidianamente fanno al Parlamento Europeo le ali estreme dell’emiciclo.