Lunedì 21 l’Assemblea Nazionale del regno di Cambogia 181.035 Kq e 17 milioni di abitanti) inaugura la sua settima legislatura, sotto la presidenza di re Norodom Sihamoni. Con il voto di fiducia al nuovo governo guidato da Sun Manet, il 22, riprenderà l’attività politica, dopo le elezioni di luglio. Per l’occasione, strade e terminal dei traghetti di prossimità verranno chiusi al traffico, a conferma che la quasi quarantennale “normalizzazione” imposta dal partito del Popolo non lasci del tutto tranquilli il premier uscente Hun Sen, ex “quadro” dei khmer rossi al potere per 38 anni.
Comprensibile: il Paese è poverissimo (reddito pro-capite medio annuo sotto i 2.000 dollari), l’opposizione politica cancellata in maniera brutale (Hun Sen ha scritto recentemente agli oppositori su FB: “Siete come pesci in un barile. Posso spezzarvi il collo e mangiarvi ogni volta che voglio”), il sistema politico costruito sul familismo (il 22,4% dei 125 candidati del partito alle elezioni sono imparentati, Manet figlio di Hun è capo dell’esercito e martedì diventa capo del governo; i nuovi ministri sono in gran parte figli di ex ministri), la politica estera e di sicurezza asservita alla Cina (pesante umiliazione per la dignità della nazione e della corona).
L’ennesimo caso di governo fondato sulle tradizioni del dispotismo asiatico, camuffato da cambio generazionale, si dirà. Verissimo, ma vale la pena parlarne per almeno due ragioni. La prima ha a che vedere con la recente storia del paese, la seconda con il contrasto tra l’evidente brutalità del regime e la profonda gentilezza e delicatezza della cultura profonda della Cambogia.
Il paese è in sofferenza dagli anni del conflitto vietnamita. Neutrale, nel 1965 fu tirato dentro la vicenda dai sentieri di Ho Chi Minh e Sihanouk. Il colpo di stato del 1970 produsse un governo filo-statunitense, sostituito nel 1975 dai Khmer rossi, con il quinquennio genocidiale che ne conseguì, interrotto grazie all’invasione vietnamita e ai successivi accordi di pace del 1991. Il biennio 1992-’93 di governo Onu portò una speranza che si espresse con la partecipazione del 90% della popolazione alle libere elezioni che seguirono. Quindi il colpo di stato del 1997.
C’è un libro della scrittrice statunitense Vaddey Ratner, nata nel 1970 in una famiglia imparentata con la casa reale, fuggita dalla Cambogia nel 1979 dopo quattro anni nei campi di lavoro dei Khmer rossi, che scava in profondità nel dramma cambogiano.
La protagonista, Suteera, è una tredicenne che scappa dai Khmer rossi insieme alla zia, unico legame rimasto con la sua storia di bambina felice. Da grande tornerà, da americana, in un paese che non conosce e non sente suo, per onorare le ultime volontà della zia, e perché è stata richiesta d’incontrare un misterioso musicista che afferma di aver conosciuto suo padre. Lo vedrà in un monastero buddhista, cieco e colmo di sensi di colpa, e da lui riceverà gli strumenti paterni.
Le vibrazioni di quella sorta di liuto avevano accompagnato l’infanzia di Suteera, e poi la fuga sua e della zia verso la Thailandia – “la musica dei fantasmi” le aveva detto, spaventandola, il soldato che le guidava verso la libertà – e ora riecheggiavano nelle parole del vecchio in cerca di riscatto per l’anima corrosa dalla vigliaccheria giovanile.
Il monaco che guida la comunità dove il vecchio si è recluso, di fronte al fatto che “ogni giorno dobbiamo convivere con una tragedia”, si chiederà “con aria abbattuta”: “Gli stranieri dicono spesso che la nostra è una ‘cultura dell’impunità’. [ … ] Siamo davvero esenti da punizioni per i nostri crimini, quando la nostra cultura, la nostra convinzione di fondo, ci dice che la conoscenza dell’atrocità che commettiamo è essa stessa una punizione?” Si dà la risposta: “Noi infliggiamo sofferenza perché ne siamo afflitti”.
Il vecchio cieco di rimando: “Quando penso … alle innumerevoli vite perse e spezzate, mi rimane la profonda speranza che un giorno esisterà un mondo in cui la giustizia non sia semplicemente … un ideale di punizione per riparare a un torto, ma … un modo di essere”.
Il vecchio musicista torna ad eseguire, in pubblico, versi del padre, e Suteera ascolterà, pacificata. La sofferenza umana nell’interpretazione del più autentico buddhismo: tutto scorre nel dolore del samsara, tutto ruota verso il nirvana.