“Vorrei fare il giornalista, mi dà qualche consiglio?”. La domanda ricorrente esige una risposta complessa. Punto primo: questa professione non è come un ragazzo la immagina. I grandi eventi recenti – l’epidemia del Covid, la guerra in Ucraina, la rivolta delle donne in Iran, le tensioni Cina-Usa, il primo governo di destra-centro, l’alluvione in Romagna – possono dare un’idea distorta delle cose.
Vero è che numerosi colleghi, spesso giovani brillanti e preparati, sono stati catapultati negli ultimi tempi in prima linea, a raccontare che cosa succede su teatri nazionali e internazionali. Rispetto alle generazioni precedenti vanno sul posto con strumenti che permettono di trasmettere in tempo reale, anche in condizioni precarie, servizi e immagini: telefonini, pc, blog, Twitter, Instagram, Telegram. Alcuni si avvicinano talmente alla linea del fuoco da rischiare o addirittura perdere la vita: tutto pericoloso ed eccitante per chi sogna di diventare inviato. Ma questa è l’eccezione, meglio saperlo subito.
La regola non è la la trincea né la rivoluzione tecnologica: specie in provincia è invece il lavoro quotidiano ripetitivo dentro la redazione, seduti alla scrivania a impastare comunicati e notizie d’agenzia per mandare in edicola un prodotto almeno dignitoso. La tastiera, il telefono fisso e la tivù come unici mezzi di contatto con l’esterno. Niente avventura, niente epica, niente adrenalina. Soltanto routine. E se va bene, una breve libera uscita per battere il marciapiede a caccia di notizie. È un deserto dei tartari – del resto lo scrittore Buzzati era prima di tutto un grande inviato – in attesa del fatto eclatante che forse accadrà oggi, forse domani, forse mai. Punto secondo: per le stesse ragioni, meglio dimenticare i film-simbolo sui media d’inchiesta. Quarto potere e Quinto potere, Diritto di cronaca, Un anno vissuto pericolosamente, Tutti gli uomini del presidente e via via fino a Spotlight e The Post sono storie autentiche ma distanti dalla realtà. In fondo rischiano di trasformarsi in cattivi esempi animando visioni illusorie, sacro fuoco e desideri impossibili.
Meglio allora prenderne atto in anticipo e rivedere in un vecchio dvd, o scaricandolo dalla rete, un capolavoro come Prima pagina, diretto da Billy Wilder nel 1974. Il giornale è il Chicago Examiner, il direttore è Walter Matthau, il suo reporter di punta è Jack Lemmon, l’anno è il ’29, il luogo è la sala stampa della corte criminale in attesa dell’esecuzione di Earl Williams, condannato all’impiccagione per l’uccisione (ma è innocente) di un poliziotto di colore. Una commedia perfetta, d’accordo, una finzione. Però specchio dell’atmosfera romantica e appassionante, senza uguali, ruggente, teatrale e rigorosa insieme, che accompagnava il mestiere più bello del mondo. C’era una volta. Punto terzo: se uno vuole saperne di più dei tempi eroici della professione – mica tanto lontani, eh – prenda in mano il libro scritto da Mauro Bassini e appena uscito per i tipi di Minerva. Il titolo è “Piombo ai giornalisti” e vale nella doppia accezione: il piombo con cui una volta si impaginava il giornale sul bancone dei tipografi e il piombo delle pallottole.
Perché iI romanzo è un giallo, anche se molto particolare. Ambientato nella Bologna dei primi anni Ottanta, quando due colpi di pistola a mezzanotte circa – pagina 14 – rimbombano in una stradina buia del centro. L’uomo assassinato non è uno qualunque: è il direttore del giornale più autorevole e più venduto in tutta la regione, con una storia gloriosa alle spalle. E’ un delitto misterioso, senza movente, che fa rumore, scuote l’opinione pubblica e attira gli inviati dei grandi quotidiani nazionali. Polizia, carabinieri e magistratura non sanno dove rovistare per trovare la chiave dell’omicidio. Arrivano perfino le rivendicazioni di sedicenti Brigate Rosse a intorbidire le acque. Senonché entra in campo il maestro dei cronisti di nera: sarà lui, omino apparentemente dimesso e improbabile come il tenente Colombo, a sbrogliare la matassa.
Bassini sa quel che scrive. È stato vice direttore del Quotidiano Nazionale, testata che raccoglie il Resto del Carlino, Il Giorno e La Nazione, e ora è una firma de La Voce di New York. Il suo giallo si svolge all’interno della redazione del Carlino – che nel libro si chiama L’Emiliano – e mette d’accordo lettori qualunque e addetti ai lavori. Personaggi e interpreti sono raccontati quasi tutti con un nome fasullo ma assonante a quello vero: uomini pubblici conosciutissimi in città e giornalisti divertenti, temuti, battutisti talentuosi e un po’ cialtroni. Gente curiosa, ironica, intelligente, depositaria di memorabili aneddoti professionali e non. I meccanismi del giornale sono descritti con precisione e ricchezza di particolari: depistaggi, rivalità, buchi inferti alla concorrenza, rapporti con la questura, il rumore delle rotative e le ribattute tenute nascoste fino all’ultimo secondo per non dare vantaggi ai giornali nemici. Le gag che rimbalzano in redazione sono folgoranti: un cinema a ingresso gratuito. La scena è Bologna del 1982, quand’era sindaco il comunista Renato Zangheri. Cinque anni dopo i tumulti del ’77 dentro e fuori l’università e i carri armati del ministro Kossiga in piazza Verdi.
Due anni dopo la bomba alla stazione. Una piccola capitale comunque <mai sazia e mai disperata>, capace di sorridere senza prendersi sul serio, legata alla fortissima rivalità tra il Carlino e L’Unità che rappresentavano mondi politico-imprenditoriali contrapposti e si rivolgevano a pubblici totalmente diversi. I giornalisti si facevano la guerra a colpi di editoriali salvo ritrovarsi regolarmente in trattoria, deponendo le armi per cena davanti a una tagliatella fuori orario nel locale dei nottambuli: lì da Vito dove giocatori di tarocchino, Guccini e Dalla, professori universitari e la più varia umanità erano di casa. In più a quell’epoca era appena sbarcata a Bologna il terzo incomodo Repubblica. Tutto sommato leggendo il libro viene proprio voglia di fare il giornalista: sempre meglio che lavorare, no?