L’omicidio che nel 1985 sconvolse la piccola cittadina di Gary, nell’Indiana, dopo quasi quarant’anni è tornato attuale. La storia di Ruth Pelke, uccisa per mano della quindicenne Paula Cooper poi condannata alla pena di morte, diventa di dominio pubblico dopo un lungo silenzio mediatico grazie alle pagine di “Seventy Times Seven”, il nuovo libro di Alex Mar.
Cinque anni di ricerche, centinaia di ore di interviste, migliaia di pagine, lettere ed e-mail inedite, articoli di giornale, fotografie e decine di ore di filmati d’archivio le sono serviti per comprendere a 360 gradi una vicenda che, nel pieno degli anni ’80, è diventata di dominio internazionale grazie all’inchiesta di due giovani giornalisti italiani: Anna Guaita, corrispondente negli Stati Uniti per Il Messaggero, e Giampaolo Pioli, inviato per La Nazione.
Una storia che intreccia tre sentimenti dominanti: pietà, perdono e compassione. “Quando Paula Cooper viene condannata a morte, nessuno si scandalizza per l’esecuzione di una teenager – racconta l’autrice – ma la situazione inizia a cambiare quando il nipote della vittima, Bill, perdona la ragazza contro il volere della sua famiglia e si batte per risparmiarle la vita”.
Bill Pelke, nipote di Ruth, era infatti estremamente contrario alla pena capitale per Cooper, così come per ogni altro assassino.
“Da una parte c’era la vittima e la sua famiglia – continua Mar – dall’altra la ragazza che ha commesso un crimine e le persone che stavano dalla sua parte. Sono riuscita a entrare in contatto con persone da entrambi i lati della barricata, soprattutto Bill e Monica Foster, che alla fine è diventata una figura importante nel team d’appello per Paula Cooper”.
Ad attendere la ragazzina c’era infatti la sedia elettrica, ma in virtù della giovane età e del contesto razziale, per salvarle la vita nacque una mobilitazione internazionale. Aderirono in molti, da organizzazioni internazionali come Amnesty International fino a Papa Giovanni Paolo II. È forse merito suo, raccontò Cooper in un’intervista, se riuscì a sfuggire alla morte.
Grazie alle proteste, nel 1988 la Corte suprema proibì la pena capitale ai minori di 16 anni al momento del crimine, e la decisione fu ripresa dalla Corte suprema dell’Indiana, che commutò la pena di Paula in ergastolo per poi smussarla ancora arrivando a 60 anni di carcere. Dopo 26 anni dietro le sbarre, Cooper fu rilasciata il 17 giugno 2013.
Ma la sua vita non ebbe un epilogo felice: il 27 maggio 2015, a 45 anni, fu trovata morta in casa a Indianapolis, forse divorata dai fantasmi di quell’omicidio che non la lasciarono mai riposare serena.
“Ci sono alcuni punti essenziali che questo crimine solleva – spiega l’autrice – uno è l’approccio alla giustizia, che è ancora molto vivo oggi ed è qualcosa con cui ci confrontiamo culturalmente. Molti politici sanno presentandosi come duri contro il crimine otterranno dei voti, ma questo non ha nulla a che fare con ciò che funziona davvero, e mantiene le comunità sicure. Questa storia è ambientata prevalentemente negli anni ’80 e ’90, ma è un problema che si ripropone ancora oggi.
Un altro aspetto è il modo in cui il nostro sistema è costruito per non farci pensare alla famiglia che sta dall’altra parte. È politicamente vantaggioso ottenere la sentenza più severa possibile, e i parenti della vittima saranno d’accordo se verranno indotti a disumanizzare la famiglia dell’imputato. Quello che ho scoperto è che, in molti casi, le due famiglie hanno tanto in comune, in parte perché sono state unite dallo stesso crimine, ma anche perché possono essere ad esempio vicine di casa. Questo è un aspetto del processo che spero possa trovare più spazio. Il fatto che Rhonda e Bill si siano conosciuti è stato un evento fondamentale, che ha cambiato il modo in cui entrambi sono riusciti a elaborare il crimine”.
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