Due anni fa in Italia eravamo 59 milioni e mezzo. Il prossimo saremo 58,87 milioni e nel 2025 appena sopra 58 milioni e mezzo.
Ogni quinquennio perdiamo grosso modo 1 milione di persone, il che ci porterà nel 2030 a 57,54 milioni di abitanti e, gettando lo sguardo sul decennio successivo, a scendere a 55 milioni nel 2040 e a 53,88 nel 2045. Di quel passo gli italiani saranno 51,89 milioni nel 2051 e 48,23 milioni dieci anni dopo, per rimpicciolire sino ai 37,08 milioni a fine secolo, nel 2099.
Una previsione che non tiene conto dell’eventuale dazio da pagare a pestilenze e guerre e che essenzialmente si basa su quattro dati certi: la scarsa predisposizione a figliare delle giovani donne italiane, il numero di espatri dei residenti, la disaffezione di chi emigra o fugge dal suo paese a stabilirsi permanentemente da noi, l’invecchiamento dei baby boomer (l’indice di vecchiaia ovvero il rapporto tra anziani 65+ e giovani con meno di 15 anni, è ora 182,6, quasi 2 anziani per ragazzo).
Ci si sofferma sul secondo dei dati, anche perché ne parla ampiamente un libro in uscita da Donzelli, L’Italia e i figli del vento, scritto da Delfina Licata, referente dell’area ricerca e documentazione della Fondazione Migrantes, organismo della Conferenza Episcopale Italiana. Tra il 2012 e il 2019, più di 1.620mila stranieri hanno ottenuto la cittadinanza italiana, ma quasi il 5% di loro ha già deciso di andarsene e il fenomeno tende a intensificarsi.
Nel frattempo è cresciuto anche il numero degli italiani di più antica data che, singolarmente o in famiglia, abbandonano la penisola, per scelta più che per bisogno: il 2014 risulta l’ultimo anno che ha visto meno di 100mila italiani andarsene per sempre, poi il fenomeno è cresciuto sino alle 131mila uscite calcolate ad inizio 2020 per l’ultimo anno pre-pandemico.
Le partenze di italiani, naturalizzati e non, collocano ora il paese al settimo posto per flussi emigratori dai paesi europei. Appare lontano il 1973, primo anno dell’Italia unitaria nel quale si registrò un numero maggiore di rimpatri, 125.168, rispetto agli espatri, 123.802.
Licata, oltre a esporre e commentare dati che illustrano in dettaglio l’emigrazione italiana e gettano un occhio interessato alle nostre immigrazioni per l’intreccio a questo punto auspicabile rispetto al tono demografico del quale il paese ha bisogno, fa pedagogia consigliando di trasformare il pregiudizio razziale e politico in consapevolezza di un’antropologia che ha inevitabili richiami alla dottrina della chiesa e al messaggio evangelico.
Alla fine, spiega l’autrice, la popolazione mondiale, quindi anche italiana, è composta solo e sempre di migranti o figli di migranti e non possiamo che riconoscerci tutti “figli del vento” che ci prende e trasporta, facendoci nascere e crescere dove capita a seconda delle storie individuali e collettive.
La facilitazione accordata alla mobilità dalle tecnologie disponibili, ha fatto ulteriormente lievitare, nel nostro tempo, un fenomeno che appartiene alla storia umana di sempre.
Per il World Migration Report 2020 del Dipartimento affari economici e sociali (Un-Desa) delle Nazioni Unite, il totale dei migranti internazionali è arrivato (2020) a 281 milioni, più che triplicando gli 84 di mezzo secolo prima. Due su tre sono migranti per lavoro, studio, o ricongiungimento familiare. Un terzo circa (la sua metà è data da europei) del totale (87 milioni) sceglie l’Europa. L’Italia – dopo Germania, Federazione Russa, Regno Unito, Francia e Spagna – è il sesto paese di accoglienza.
Il fatto è che con l’equilibrio demografico (il rapporto tra il bisogno di persone in termini quantitativi e qualitativi e la capacità di loro reperimento detenuta dal sistema socio-economico) non si scherza: se si fallisce su quel punto, casca tutto. Per questo le società evolute hanno scoperto che il principio di “cittadinanza” non è questione di privilegio o di appartenenza biologica, ma un principio giuridico dalla componente volontaristica e/o utilitaristica.
Correttamente, Licata precisa che è “ibridazione, fluidità, dinamicità”. E “pendolarismo”, perché guardando alle storie personali di tanti italiani, vecchi e nuovi emigrati, ma anche a quelle di immigrati da paesi in sviluppo che hanno fatto fortuna in Italia, afferma che l’emigrante “nell’andare e tornare si arricchisce senza perdere e semmai, a distanza di tempo e proprio grazie alla lontananza, ritrova elementi – culturali, identitari, politici, sociali ecc. – incardinati nel sé.”