La vita è viaggio e il viaggio è avventura. Ho sempre viaggiato andando all’avventura. Ho intrapreso tanti viaggi senza programmarli e soprattutto senza affidarmi ad agenzie e gruppi organizzati.
Ma la maggior parte delle persone teme l’imprevisto e programma tutto, perfino cosa mangerà quel tal giorno. Odia le sorprese, perché possono cambiare l’esistenza. Lo scorso weekend al Salone del Libro di Torino ho ascoltato la presentazione, fatta dal filosofo Umberto Galimberti, del libro di Pietro Del Soldà: La vita fuori di sé. Una filosofia dell’avventura (Marsilio).
Per Galimberti uscire dal proprio io è l’unica strada possibile per capire che senso ha la vita. Eugene Bleuler, lo scopritore della schizofrenia, disse che noi siamo abitati da molti personaggi che l’io tiene a bada finché ce la fa. In verità la follia ci abita e noi non ci facciamo caso. Nel sogno spesso il personaggio sono io, ma sono anche lo spettatore.
Chi è trattenuto dal proprio io, dalla razionalità, è infelice perché recita la vita e non crea niente. Gli antichi Greci sapevano che, se vogliamo essere creativi, dobbiamo affondare nella nostra parte folle. Entusiasmo deriva da en-theos: dentro di te parla il dio. La divinità non è altro che la proiezione della nostra parte folle, che viene rappresentata dagli dei olimpici. Il filosofo Karl Jaspers osservò che ogni volta che ammiriamo una perla, non consideriamo che è la malattia della conchiglia.
L’avventura conferisce alla vita qualcosa di nuovo, di venturo, non il passato che non passa mai, la sicurezza. Ma finché l’io non viene indebolito, non avremo alcuna avventura. In questo libro i protagonisti si concedono all’insolito. È faticoso, rischioso, mette i brividi. Ma come si arriva fuori di sé? Attraverso amore, dice Paltone. La follia d’amore è la più eccelsa, la più divina. Per amore siamo disposti a a cambiare la nostra vita, a perdere tutto.

E lo dice Platone, che ha inventato la ragione. Per il filosofo greco essa è solo un sistema di regole e l’io un luogo dove si esercitano. La morte è l’assurdo rispetto all’io. L’economia della specie non coincide con l’economia dell’io. Alla specie interessa la propria comunità, mentre il nostro io resiste, si dispera di fronte alla morte, perché si è dimenticato che a decidere della sua vita non è lui ma la specie. Un’antitesi totale.
La nascita di un bambino è una perdita secca per l’io, per la specie un guadagno. Crescendo facciamo continuamente morire parti di noi. Morire è cambiare, ma l’io non vorrebbe cambiare mai.
Per l’autore Pietro Del Soldà tutti noi abbiamo bisogno dell’avventura. È qualsiasi cosa che abbia la capacità di sottrarci al ritmo monotono del quotidiano, ha un legame diretto con il nostro sé e fa venir fuori quello che siamo veramente. Partire all’avventura porta ad affrontare tre fattori critici: il trauma dell’io, la trappola delle aspettative del conformismo esacerbato, l’ossessione per l’immediatezza del risultato legata al tornaconto.

Secondo Galimberti la preminenza dell’io individuale nella nostra società è dovuta al Cristianesimo che è una religione dei corpi, perché ha inventato l’incarnazione di Dio, benché prometta l’immortalità dell’anima. L’io che viene prima della società è la nostra rovina. Il narcisismo, l’egoismo sono cascami di quest’anima, conducono alla solitudine. Invece la nostra identità è un dono sociale, perché è il riconoscimento che costruisce l’identità: degli altri abbiamo bisogno.
Ciascuno di noi è il simbolo di un uomo, la metà di un uomo, il quale diventa intero con il riconoscimento dell’altro. Come si ricostruisce l’antica identità? Nell’amplesso amoroso, quando uno è con l’altro. Noi nasciamo dal due, è la madre che genere l’uno, ci siamo separati. Chi sei senza l’altro che ti guardi? Il prossimo sei tu che ti fai prossimo a un altro, ti avvicini, non è l’altro.
Per Del Soldà dovremmo diventare dei viandanti, invece siamo solo dei viaggiatori: partiamo da un punto per arrivare a un altro. Il viaggiatore ha sempre una meta. Il viandante non ha confini. Noi diciamo arrivederci, il viandante dice addio: bisogna sapersi congedare. Per incontrare qualcosa di nuovo.