Passeggiare per le vie di Parigi, fino al solito caffè, per poi sedersi ad un tavolo e dedicarsi alla scrittura di una storia che “si scriveva da sola”.

Festa mobile di Ernest Hemingway è un libro di poco più di un centinaio di pagine, diviso in capitoli che, pennellata dopo pennellata, raccontano microcosmi fatti di rapporti umani e bellezza, vera o immaginata perché, come scrive l’autore nella prefazione rivolgendosi direttamente al lettore: questo libro, se anche fosse considerato finzione, metterebbe comunque in luce elementi di vita reale. La sua. E quella di tutti coloro con i quali lo scrittore venne in contatto mentre si trovata a Parigi.
Aveva viaggiato tanto, Hemingway. Eppure, Parigi era per lui un posto speciale. Forse, perché ci aveva vissuto negli anni venti (del secolo scorso) insieme alla moglie, circondato da amici artisti, fra i quali Scott Fitzgerald, Gertrude Stein e quello che, T.S. Eliot, nella dedica di Terra Desolata definisce “il miglior fabbro”, Ezra Pound. Forse, perché Parigi è una “festa mobile” che ti accompagnerà sempre ovunque sarai e della quale riuscirai a scrivere davvero solo quando non sarai più là.
Un periodo, questo, pieno di ispirazione e liberà che Hemingway sentiva sua nonostante avesse poca disponibilità economica (tanto che viveva in un sottotetto e spesso era costretto a prendere libri in prestito da una biblioteca perché “in quel periodo, non c’era denaro sufficiente per acquistare libri!) Eppure, in ogni racconto si respira “meraki”, una parola greca che, oltre ad avere un suono dolcissimo, racchiude in sé la gioia del fare ciò che si ama.
L’amore, in effetti, è un elemento che corre, seppur nelle sue differenti sfaccettature, attraverso ogni pagina di questo libro: fare ciò che ami, viaggiare con qualcuno che ami, essere ciò che ami, etc. E quando questo non è possibile, il mondo ci appare differente. Interessanti in questo senso le poche righe in corsivo scritte all’inizio del capitolo “Scott Fizgerald”:
«Il suo talento era naturale come il motivo disegnato dalla polvere sulle ali di una farfalla […] Più tardi divenne consapevole delle sue ali danneggiate e della loro composizione […] e non riuscì più a volare perché l’amore per il volo era sparito e lui poteva solo ricordare il tempo in cui gli veniva naturale».
Forse, uno scrittore può dimenticare il suo talento o vivere in un ricordo di ciò che è stato. Ma non può dimenticare Parigi perché “non c’è mai una fine a Parigi […] Tornammo sempre là, poco importava chi fossimo e come lei fosse cambiata”.