Like, secondo Treccani, consisterebbe (tra le varie declinazioni) anche nell’illusione di consenso che la rete veicola.
Allora dislike sarebbe il suo preciso opposto? I social hanno certamente ridotto le distanze di interazione, ma ne sono state ampliate quelle della persuasione comunicativa. Più nettamente: la comunicazione della politica è cosa diversa dalla politica della comunicazione.
È però in queste due variabili che, oggi, va interpretata la dimensione della contemporaneità in cui le campagne elettorali non vivono più di sola piazza e di città. Anzi, quest’ultime, sono quasi residuo ed eventualità. Dalla radio alla tv, con l’avvento social è cambiata la percezione sociale dei problemi attuali, l’intensità di approccio alle questioni cruciali della politica, la capacità di filtrare per approfondire e, viceversa, di approfondire per filtrare.

Si è in un’epoca in cui l’illusione del consenso, giustappunto, è più incisiva della statistica, della ricerca e dell’opera di coinvolgimento nonché di convincimento altrui: cosa che la politica, palesemente, non è preparata a fronteggiare per tanti fattori (in primis il come i partiti siano cambiati dopo la seconda Repubblica). Esiste una sorta di equazione like = dislike?
Si perché sono due facce della stessa medaglia: la superficialità decisionale. Attenzione, però, a non generalizzare e/o banalizzare: c’è gente che se decide di likerare un post (mi si faccia passare il verbo) lo fa per consapevolezza così come c’è chi si industria nel confronto per alimentare la ricchezza del contenuto iniziale.
Ovviamente il problema a monte sta su macro-scala. E qui torna al centro la superficialità: cosa che si riflette anche in sede elettorale. Ne abbiamo avuto massima rappresentazione, specie nell’ultimo decennio, con il trend avviato dall’uso spettacolarizzante del famoso “vaffa” di grillina memoria.
Allora cosa rimane per combattere questa sorta di “show della politica”? Daniele Capezzone con il suo libro Likecrazia (edito Piemme), oltre ad analizzare il fenomeno appena illustrato, conduce la questione su due direttrici: la prima è un vero e proprio protocollo performativo, la seconda è il richiamo all’educazione del dibattito che lungi dall’essere paragonabile al c.d. politicamente corretto (anche perché l’autore ne smonta la funzionalità stessa ai fini dell’utile confrontarsi).
Il “protocollo Capezzone” descrive, esattamente, buona parte del prototipo di social user che si può incontrare in viaggio sul web ponendoci una domanda di fondo. Udire vuole dire star a sentire? No, è questa la differenza principale. È ciò che emerge, facilmente, sposando la teoria del like spettacolarizzato (sia social che televisivo ovviamente) per cui l’attenzione, sempre secondo il protocollo suddetto, dura “10 secondi se parli, 20 se piangi, 30 se sanguini”.
Metafore, quest’ultime, che stanno a decifrare come si stia creando un vuoto tra voglia di sapere (stimolo) e capacità di cercarlo (strumento). Spazio nel quale si insinua un perbenismo sfrenato che altro non fa se non cuocere le menti più inclini alla disaffezione politica nutrendosi, di riflesso, di forte disinformazione sociale sui temi. Il risultato è presto che tratto: ci si abitua, sottotraccia, all’impatto visivo od alla percezione simpatica (per essere buoni) di chi dice qualcosa piuttosto che focalizzarsi sul perché.
Un po’ come il processo che svolge l’immedesimazione del qualunquismo (sintesi del concetto “Tizio parla come me e, quindi, vuol dire che ho ragione”). È qui che la seconda direttrice si fa strada tra le soluzioni possibili e di contrasto alla deriva su individuata; è il mix, mediaticamente inesplorato, che si può ottenere da tre fattori di comunicazione: gentilezza, emozioni positive ed ironia. Soprattutto l’ironia, quale arte della dissimulazione, può essere lo strumento politicamente più delicato per dare una direzione nuova alla massa invece di dotarla di un’arma di (auto) distrazione.

Ma si badi che c’è un sottile limite tra l’ironia, appunto, e il sarcasmo: quest’ultimo può fomentare l’odio. È questa la teoria del like in cui il potere del suo opposto diventa il prevaricatore dell’astratta dimensione della libertà nel discernimento. Educazione al dibattere è una strada precorribile?
Non a caso Socrate ha fatto dell’ironia una prerogativa della sua esistenza. Testimonianza che, catapultata nel mondo attuale, ci ricorda come essa possa fare la differenza in una società sempre più orientata al suo contrario ovvero allo scarto del contenuto ed all’esaltazione dell’apparire (ed il tutto in meno di 10 secondi).
Politicamente corretto non è comunicazione. È abdicazione del politicamente educato. Su questo fronte abbiamo tutti parecchia responsabilità.