Notti insonni, di Elizabeth Hardwick, una delle più influenti critiche letterarie americane del secolo scorso, pubblicato nel 1979, è da poco tornato in libreria per Blackie Edizioni, nella traduzione e postfazione di Claudia Durastanti. È il suo libro più letto, nel quale la fondatrice della New York Review of Books ha esplorato un genere ibrido: la narrativa scritta sotto forma di saggio meditativo. Aspetti della sua vita privata si intrecciano alle storie di diversi personaggi tutti protagonisti di un’esistenza fatta di partenze e ritorni da New York, la città che le ha permesso di essere quell’intellettuale ebrea newyorkese verso cui ha sempre aspirato. È stata una traduzione istintiva e non empatica quella di Claudia Durastanti che ha seguito una marea piuttosto che intervenire con delle scelte lucide e autoriali. Un’esperienza totalizzante come racconta mentre lo ricorda.

Come è stato trascorre diversi mesi in compagnia di Elizabeth Hardwick?
“È un libro che da sempre ha in me una funzione da talismano, quando l’ho lessi tanti anni fa qualcosa inconsciamente pensava all’intraducibilità del testo o quantomeno era molto legato allo stile rapsodico e ipnotico della lingua che è molto specifica, differentemente da altri libri in cui colgo subito quell’istinto alla loro traducibilità, non è stato così per Sleepless Nights. L’ho tradotto in uno stato di trance, in contesti di dormiveglia che mi hanno portato via lunghe nottate. È stata una traduzione notturna e veloce, sono andata per sequenze, ho cercato di tradurre vari capitoli insieme nel minor tempo possibile, in modo da mantenere una compattezza, un metodo di solito che non uso”.
Un libro brillante, fragile e strano, un libro diverso da qualsiasi idea preconcetta che si ha di cosa può essere un romanzo.
“Direi che rappresenta un testo unico per una sorta di mancata ereditarietà. In questo mi fa pensare molto a Renata Adler che è uscita per la New York Books Reviews con Speedboate e Pitch Dark. È un gioiellino enigmatico, raro che non permette un orientamento e volutamente non ho letto niente sull’autrice, ma avrei tanto voluto avere un epistolario con lei, così da rendere la traduzione più densa”.
Nel romanzo, la protagonista, Elizabeth, la si intravede solo con la coda dell’occhio, appare come colei che disegna un profilo di se stessa attraverso osservazioni precise e descrizioni dei luoghi e delle persone che ha amato, attraverso una voce molto ferma, è stato difficile mantenerla nella lingua italiana ?
“La difficoltà della resa non ha riguardato la posizione dell’autrice, il suo io, la sua fisionomia. Io lavoro molto per ellisse e quindi c’è stata una risposta immediata in questa idea di non chiarezza e di volumetrie un po’ appannate. È un libro che segue la struttura dei sogni, salta nelle sue sequenze illogiche però rese attraverso un grande processo descrittivo che in qualche modo le ancora alla realtà. Il metodo è come se fosse quello del sogno ma l’atmosfera è del realismo simbolista. Non ha rappresentato grandissime sfide, al di là di qualche inciampo lessicale e di non aver potuto avere una conversazione con l’apparato critico di questo testo”.
Sleepless Nights porta il dono profondo dell’assenza di trama, un libro anticonvenzionale.
“Notti Insonni è un libro che si risolve in se stesso, è programmato all’impossibilità della sua riproduzione e questo perché è un libro basato su una serie di intuizioni e reminiscenze non necessariamente personali. Nonostante i suoi accenni universali è un libro irripetibile proprio perché si basa su una compulsione. La traccia del ritmo della memoria che fa parte del Dna individuale e che ha un andamento asintotico estremamente diverso per ognuno di noi. Ecco in questo libro sono presenti dei vertici assoluti dell’idea di che cosa può essere recuperare dei pezzi di se dallo scaffale della memoria con una lingua che ha delle aggettivazioni così inaspettate che ho ritrovato solo in Nabokov e per altri aspetti a Flaubert, per questo è un libro riuscito”.
Trasporta grazie alla sua incredibile potenza linguistica.
“Notti Insonni rinuncia a una serie di approdi al fine di farsi esperienza pura e per questo deve necessariamente affidarsi allo stile e alla lingua. In questo ha una miracolosa assenza di sbavature, anche se è ostico e sicuramente c’è una soglia da attraversare nelle prime pagine in cui ci si può sentire violentemente respinti fuori, ma se poi si entra nella sua melodia, in quella sua specifica frequenza, ti trasporta. C’è una forza sotterranea che si impone su tutto il testo e per me questo deriva dallo stile”.

Hardwick ricorda con affetto nelle sue pagine New York, come la città che l’ha trasformata in una donna scrittrice, la maggior parte dei soggetti dei suoi ricordi sono donne, Billie Holiday entra in modo seducente nel testo, ecco è stata una traduzione per certi versi al femminile?
“Assolutamente si. Definisce questo libro attraverso la sua esperienza nomade di donna e di scarto delle donne che racconta. La figura materna è descritta con dei bellissimi passaggi, non perché la storia di ogni donna è anche quella della propria madre ma per la transizione storica e culturale che si evince. Il suo catalogo laico di femmine e femminilità offre una panoramica ampia e non scontata”.
Hardwick ha vissuto nelle residenze per sole donne – versioni più modeste dei Webster Apartments-, e faceva parte di una generazione di intellettuali che gravitavano attorno alla Partisan Review. Mi viene in mente la residenza per scrittori, Santa Maddalena in Toscana. Quanto sono stimolanti questi luoghi per la creatività ?
“Sono luoghi transitori e di passaggio che coincidono per la Hardwick in un momento di assalto e di conquista della città. Sono esperienze propedeutiche a un certo tipo di scrittura, da cui sono venuti fuori schizzi e ritratti di gioventù poco composta che tendono a romanticizzare il canone della giovane donna che arriva a New York. Le residenze per scrittori sono invece luoghi molto codificati, un po’ come i casinò, tolgono la questione del tempo che diventa infinito, sono profondamente illusori ma possono anche essere pericolosi per la scrittura. Io ho avuto il vantaggio di trattare questi contesti sempre come luoghi di osservazione, e sono stati fondamentali per le conversazioni. Santa Maddalena è un luogo carico di storia, che non si può descrivere senza gli incontri”.

La Hardwick in questo mondo post pandemico avrebbe mantenuto sempre una visione narrativa acuta?
“Oggi la pandemia è raccontata o nella prospettiva di ogni cosa persa o di chi tende a essere molto febbrile, proponendo un mito di resistenza. Ecco la Hardwick non sarebbe scivolata -nel caso di New York- in nessuno di questi due poli e avrebbe mantenuto una posizione correggendola costantemente”.
Hai origini americane e vivi a Brooklyn, c’è qualcosa della New York della Hardwick che ritrovi nella tua?
“Mi associo molto all’idea della ragazza giovane che arriva in città e che è stata resa iperpopolare alle masse con Sex and the City. La mia esperienza adolescenziale di New York è stata quella di poter ancora credere a questo arrivo simbolico, oggi invece la mia difficoltà nel viverci sta proprio nel fatto che ormai non è più possibile questo tipo di arrivo e ci sono ben altri luoghi che sono le prime stazioni dove approdano le personalità romantiche e affamate”.
È svanito il sogno americano.
“La voce sardonica di Hardwick che per me è incantevole -come nelle pagine di Billie Holiday- riesce a mantenere quella dose di crudeltà invece di scivolare nello sciropposo, che racconta New York su note crudeli. Prima si riusciva a tenere una proporzione tra romanticismo e cinismo, che oggi non c’è”.
Intelligenza e ingegno. Bisogna correre in libreria e leggerla.
“La realtà editoriale di oggi è quella delle etichette e delle segmentazioni. I prodotti sono il più possibile confezionati per il cliente e anche in letteratura c’è questa proliferazione di catalogare. Mi sono spesso chiesta quale sarebbe stata la prima reazione se fosse oggi arrivata come esordiente pura. Le facoltà di lettura sono molto cambiate e non so quale tipo di accoglienza avrebbe potuto avere. È un libro multisensoriale, leggerlo è un’esperienza”.